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BREXIT: gli antichi hanno sempre ragione?! (o Sulla Democrazia)


Uno dei motti preferiti da mio padre era “Gli antichi hanno sempre ragione”. Così in questi giorni mi son venuti in mente frasi fatte e modi di dire che hanno acquistato ai miei occhi significati nuovi, anzi significati più consapevoli, di quelli che avevo sempre dato loro: “troppi cuochi guastano la cucina” e molti altri ancora.


Tuttavia, prima di partire voglio fare una precisazione: se nel corso della lettura sarete tentati di classificarmi, fermatevi, perché non sarò il tipo di blogger adatta a voi. Mi spiego meglio: quando ho scritto del TTIP mi hanno dato della complottista o della grillina (a piacere!), quando ho detto che le potenze occidentali hanno violato il diritto internazionale intervenendo in Siria mi hanno definita anti-americana o filorussa (a voi la scelta!), quando ho detto che per il caso Marò la giurisdizione appartiene all’Italia e sono state commesse numerose violazioni mi son presa della fascista o, nella migliore delle ipotesi, della militarista. Ora, a parte fare fatica a inquadrarmi contemporaneamente in tutte queste categorie, e pur essendo consapevole che già solo il fatto di pubblicare mi espone a un giudizio ed è un rischio che ho accettato di correre già da molto tempo, il mio invito non è a non classificarmi bensì a essere consapevoli che, nel momento in cui mi state classificando, state sbagliando a identificarmi.


Mi rendo conto che ci troviamo in un mondo in cui si è così poco abituati ad avere di fronte persone veramente libere per cui l’approccio con cui ci si avvicina a ogni cosa, e soprattutto persona, è quello di farla rientrare in uno schema, per meglio “comprenderla”, misurarla, dargli una posizione e quindi poterla catalogare. E, al contempo, se non rientri in una categoria, in questo mondo, finisci per non essere nessuno.


Visto che proprio una categoria bisogna trovarla allora ve la suggerisco io: classificatemi semplicemente come “persona libera”. Non ho l’obbligo di usare toni diplomatici, non devo compiacere nessuno e non devo convincere nessuno. Scrivo perché vedo tante cose che non mi piacciono e soprattutto sento tante di quelle cose che so essere menzogne al punto da avere il rifiuto interiore a stare zitta, sto quasi male fisicamente a sentirle certe cose. È il dolore fisico dell’indignazione.

E non considero menzogne le opinioni che non condivido, né mi sento la depositaria della verità. In genere, invece, le mie riflessioni partono dal fatto che qualcuno, il più delle volte in TV, sta tentando di convincere la gente che 2+2 fa 5, ma la gente questo non può coglierlo perché magari, giustamente, non ha sotto mano un articolo di una qualche convenzione internazionale. Ma se io che conosco quell’articolo mi rendo conto che chi sta in TV racconta solo una parte di quell’articolo, che magari – nel suo prosieguo taciuto – prevede deroghe, eccezioni, precisazioni interpretative, allora consentitemi di dire che quello è un inganno! Non si tratta di interpretazione libera di una norma: quella è nella migliore delle ipotesi - perché non c’è cattiva intenzione – ignoranza; nella peggiore è malafede e truffa. A danno degli individui.


Esempio concreto: ipotesi portata avanti da alcuni, di uscire dall'Euro ma rimanendo nell'Unione Europea. Ve lo dico già da adesso: questa possibilità non esiste!

Il Trattato sull'Unione Europea così come quello sul suo funzionamento, e altrettanto può dirsi per il diritto europeo nel suo complesso, non prevede la possibilità di uscire dall'Euro - una volta che ci sei dentro: o opti per non entrarvi fin dall'inizio (vedi Regno Unito, Danimarca) o, una volta che l'hai adottato, "te ne puoi liberare" solo uscendo dall'Unione nel suo complesso. Non si può avere "la botte piena e la moglie ubriaca". Per cui chi vi dice che al momento si può fare, vi sta raccontando una bugia.

Ovviamente non posso escludere che in un futuro futuribile gli Stati si riuniscano, decidano di modificare i Trattati e allora questa possibilità venga contemplata. Al momento così non è.


Ora partiamo.


Questioni di egemonia

Il Regno Unito, per tradizione, non ha mai voluto occuparsi dei fatti europei fintantoché qualche Paese continentale non avesse deciso di fare l’egemone e quindi rischiasse di “romperle le uova nel paniere” (altro detto!). L’esempio classico è l’intervento negli affari del continente quando Napoleone rischiava di far diventare la Francia concorrente dell’Inghilterra.

Altrimenti, in generale, l’Inghilterra, in quanto isola, non si è mai sentita parte dell’Europa e ha sempre guardato altrove: in linea di massima a tutto ciò che era extraeuropeo (Nord America, Africa, Asia, Australia) e, specificamente, verso l’Asia Centrale da quando a fine Ottocento alcune teorie geopolitiche hanno elaborato il concetto di “isola mondo” e soprattutto “cuore del mondo” (altrimenti noto come Heartland, sebbene la traduzione italiana non sia letterale), identificando quest’ultima appunto con l’attuale Asia centrale.

Se tutti si scannano su determinati pezzi di terra, vedi Vietnam, Afghanistan, Medio Oriente in generale, c’è un motivo: o quei pezzi di terra coincidono perfettamente con il “cuore del mondo” o costituiscono un ingresso al suddetto “cuore del mondo”. Per cui, gli Stati geograficamente lì vicini si troveranno quasi sempre a “giocare in difesa” - che può essere anche una difesa di tipo aggressivo eh! -, ma in linea di massima reagiscono a una minaccia del loro posizionamento rispetto al “cuore del mondo” (vedi la Russia); gli Stati invece geograficamente lontani li ritroveremo sempre lì in trasferta, con scuse più o meno valide (vedi gli Usa, e ancor prima Gran Bretagna e Francia, che guarda caso tra India, Indocina e Cocincina, si erano tutti belli piazzati proprio alle porte del “cuore del mondo”. E nel momento in cui, con la terribile battaglia di Dien Bien Phu nel 1954, il generale vietnamita Giap caccia i francesi e fa loro perdere la guerra di Indocina, gli americani danno il cambio alla Francia: infatti, sebbene l’invio di truppe risalga al 1965, già a partire dall’amministrazione Eisenhower gli Stati Uniti faranno avere il loro supporto al Vietnam del Sud tramite finanziamenti, rifornimenti e invio di consiglieri militari e agenti della CIA).


Tutto questo affannarsi si ha perché, secondo la teoria geopolitica che vi ho appena citato, “chi possiede il cuore del mondo possiede l'isola mondo e chi possiede l'isola mondo possiede il mondo”. Se adesso la politica statunitense con Obama è tornata ad essere “Pivot to Asia” c’è un perché, di certo non solo legato all’espansione economica – e di altro tipo - della Cina con la sua collana di perle. Ritrovate in questa cartina dove sta l’Afghanistan. Fatevi due conti di quali sono i posti cui gli USA guardano di più. Se dopo la caduta dello scià, gli USA si sono comunque fatti piacere l’Arabia Saudita un motivo ci sarà..




Ciò spiega per quale motivo gli Usa stiano abbandonando il Mediterraneo e, in parte, anche il Medio Oriente (rispetto ovviamente alla presenza assicurata in precedenza). Gli Usa, tuttavia, non sono andati via senza nominare un “delegato – protettore dell’Europa”. E questo delegato non è, come ci si potrebbe aspettare per affinità elettive con gli americani, la Gran Bretagna; il delegato americano è la Germania.


Quando il Regno di Sua Maestà mise piede in Europa

Il Regno Unito aveva tentato fin dal 1961 di entrare nell’allora Comunità Economica Europea, non tanto perché si interessasse troppo ai fatti europei quanto per assicurarsi di non essere tagliata fuori; ma ben due volte De Gaulle gli diede il ben servito. Al terzo tentativo De Gaulle non c’era più e il suo sostituto, Georges Pompidou, non si oppose all’ingresso britannico.

Inquadriamo un attimo il periodo: prima metà degli anni ’70.

  • Il 15 agosto 1971 Nixon annuncia il fallimento del Gold Exchange Standard, altrimenti noto come sistema di Bretton Woods (gli accordi di Bretton Woods furono quelli, per intenderci, in cui furono creati la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale). Questo sistema prevedeva che la moneta di ancoraggio del sistema internazionale fosse il dollaro statunitense, il cui valore era però ancorato all’oro. Tradotto: il cambio del dollaro era sempre uguale (35$= un'oncia d’oro), mentre il cambio di tutte le altre monete era stabilito in base al dollaro. Quindi il dollaro veniva ad essere l’ago della bilancia. Tuttavia, per via delle molte spese della macchina americana, non da ultimo l’impegno militare in Vietnam, più altre problematiche di rilievo, il dollaro non ce la fece più a reggere il sistema, quindi Nixon si “arrese”, dichiarando fallito il sistema e da allora si avviò il sistema dei cambi flessibili, che è sostanzialmente quello che conosciamo adesso. Preferibile o meno che sia, il sistema di cambi flessibili fa fluttuare il valore della moneta e questo significa, necessariamente, imprevedibilità, non stabilità, continui su e giù. Così l’economia dei Paesi del mondo, chi più chi meno, inizia a fare anch’essa su e giù;

  • nel 1972 la diplomazia triangolare di Kissinger fa sì che la Cina nazionalista (ora Taiwan) venga estromessa dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a favore della Cina popolare di Mao Zedong;

  • nel 1973 scoppia la prima seria crisi petrolifera (basti ricordare quando nascono le targhe alterne);

  • nel 1974 c’è la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, che fa terminare la dittatura di Salazar e comporta anche la decolonizzazione di Angola e Mozambico sino ad allora colonie portoghesi;

  • nel 1974 ha termine, in Grecia, la “dittatura dei Colonnelli”, il governo della Giunta (ἡ Χούντα) iniziato nel 1967;

  • nel 1975 muore Francisco Franco e anche la Spagna fa la transizione dalla dittatura alla democrazia richiamando Juan Carlos sul proprio territorio;

  • nel 1975 c’è la Conferenza di Helsinki, sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, cui partecipano l’Est e l’Ovest del mondo, dalla Russia (rectius, Unione Sovietica) agli USA, e in cui si fissano i principi di democrazia e diritti umani cui ancora ci rifacciamo nella maggior parte degli atti giuridici internazionali e nelle decisioni di politica internazionale, quali il riconoscimento di nuovi Stati (vedi i fatti di Crimea di alcuni anni fa).


L’Italia quando il Regno Unito fece il suo ingresso

In quegli stessi anni, l’Italia era piuttosto forte a livello comunitario: nel 1970 il ruolo della guida della Commissione spettava all’Italia e Moro, allora Ministro degli Esteri, decise di mandarvi Franco Maria Malfatti come presidente, affiancandogli tra i commissari Altiero Spinelli. L’agenda dell’Europa in quel momento era davvero complessa:

  1. il negoziato per l’adesione di Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Irlanda alla CEE;

  2. la trasformazione del bilancio comunitario;

  3. i primi progetti di creazione di una politica monetaria europea (lo SME, meglio noto come “serpentone” vedrà la luce poco dopo);

  4. le difficili relazioni economiche con gli Stati Uniti.

Malfatti fece buone cose ma commise un errore che molto gli fu rimproverato: si dimise con alcuni mesi di anticipo rispetto alla scadenza del mandato naturale, al fine di potersi candidare in Italia per altri incarichi. Questo fu visto dagli ambienti politici e di stampa europei come la prova che l’impegno europeista dell’Italia era solo di facciata; molte parole ma poco effettivo interesse. Purtroppo, sebbene il gesto di Malfatti non sia di per sé, a mio modo di vedere, davvero indicativo, il sentire comune da allora fino ai nostri giorni è tuttora questo: se ci pensate, chi si manda al Parlamento europeo? Veline, cantanti, politici di cui ci si vuole sbarazzare nel contesto nazionale. Insomma, coscienti o incoscienti, quel che mandiamo ogni volta a Bruxelles son gli scarti. E a Bruxelles se ne accorgono.


Ora, in tutta onestà, se non vi prendete/ci prendiamo cura del nostro giardino, davvero poi possiamo lamentarci del fatto di venire punti dai rovi che nel nostro giardino sono cresciuti per colpa della nostra incuria?


Mi si opporrà che tanto il Parlamento europeo non conta nulla. A parte dirvi che state sbagliando, perché conta in molte cose solo che preferiscono farvi credere che non conti nulla perché così possono tranquillamente continuare a mandarci chi pare a loro tanto a voi non interessa, e uno varrà l’altro, vi dico anche un’altra cosa: ammettiamo che davvero il Parlamento europeo non conti nulla. Esso è divenuto eleggibile solo nel 1979. Ciò significa che prima i parlamentari erano scelti dagli Stati e non dai cittadini. Quindi, teoricamente, contava ancor meno di adesso.

Allora, mi sapete dire per quale strano assurdo motivo l’Italia in Europa contava di più prima che dopo il 1979?


Al posto di Malfatti, l’Italia nominò Carlo Scarascia Mugnozza, che aveva come competenze all’interno della Commissione la politica agricola, quella dei consumatori, dei trasporti e dell’informazione: in questi anni l’Italia iniziò a conseguire alcuni vantaggi nel quadro della PAC (Politica Agricola Comune), che negli anni ’70 assorbiva il 70% del bilancio europeo, mentre attualmente solo il 34% è destinato all’agricoltura.

In quegli anni la Francia aveva ottenuto – dopo che nel 1965 De Gaulle si era dato alla “politica della sedia vuota” - che le spese destinate alle politiche agricole fossero coperte essenzialmente dalle c.d. risorse proprie europee: tradotto, con l’IVA. Sì, l’IVA è un’imposta che viene introdotta (in Italia nel 1972) in virtù dell’appartenenza all’Europa per favorire l’agricoltura soprattutto dell’Europa meridionale ma, poi, l’alta protezione accordata dalla CEE ai suoi prodotti agricoli trovò la forte ostilità di Stati Uniti e di tutti gli altri Paesi che non riuscivano ad accedere coi propri beni agricoli al mercato europeo.

"Batti e ribatti si piega anche il ferro" e, soprattutto, l’allargamento verso nord della CEE porta a modificare la PAC europea, al punto che – per fare selezione e quindi ridurre la quantità di prodotti agricoli europei da piazzare sul mercato – si è passati all’iper-regolamentazione. Così vedi le quote latte, le quote sugli agrumi che hanno costretto il Sud d’Italia a vedere marcire sul terreno arance e mandarini. Ecc. ecc. ecc.


Pur non essendo mai in toto protagonista assoluta, l’Italia era ben vista e abbastanza riconosciuta fino ad allora dagli altri Paesi europei. In quegli anni, proprio con il negoziato per l’allargamento, qualcosa cambia. All’inizio del 1970 l’ambasciatore britannico a Roma, sir Patrick Hancock disse:


Il nostro maggior interesse per ciò che concerne l’Italia

è stato ovviamente quello relativo all’Europa.

Con l’abbandono del Ministero degli Esteri da parte di Nenni,

quando nel luglio è caduto il governo Rumor,

l’Italia si è rivelata meno efficace nei negoziati europei.

Il suo successore, Moro, è noto per la sua abilità di non dire niente con tante parole.

È risultato quindi deludente sebbene non sorprendente

che nelle settimane che hanno preceduto il vertice dell’Aja

gli italiani abbiano offerto un’impressione di confusione e debolezza.

Con Nenni in carica forse essi sarebbero stati in grado

di mantenersi fermi su quanto desideravano ottenere dal vertice,

in particolare un accordo sulla PAC di carattere provvisorio e non definitivo.

In realtà, alla fine del vertice gli italiani hanno capitolato

su questo punto per paura di restare isolati.

Né Moro né Rumor hanno giocato un ruolo significativo

nei lavori svoltisi all’Aja. Gli italiani restano sostenitori

dell’ingresso britannico nella Cee. Ma in base al fatto che

non risultano molto efficaci neppure nel difendere i propri interessi,

non possiamo aspettarci molto da loro nel difendere i nostri.

Il massimo che ci possiamo attendere è che, nel caso di coincidenza fra i loro e i nostri interessi (cosa che avviene spesso) facciano quanto possano”

Questo non è solo il pensiero degli inglesi di allora, bensì più o meno il sentire comune con cui gli Stati europei ci percepiscono da allora fino ad ora, con piccole rare eccezioni.

Anche se eleggessimo direttamente tutti i nostri delegati in Europa, se la loro qualità non migliora, credete davvero che l’elezione da parte nostra ne cambierà i risultati? No, se non cambia la qualità, anche i risultati rimarranno sempre gli stessi. Se non cambia la mentalità e soprattutto il campanilismo becero italiano, così come sono divisi adesso gli italiani a Bruxelles lo saranno anche quando saranno stati eletti uno per uno. Il valore aggiunto sarà stato solo che il loro campanilismo e le loro divisioni saranno state avallate anche da un voto popolare: questa sì che la definirei una conquista…


La mia visione della Brexit

Dal suo ingresso nella CEE (1973), il Regno Unito è stato disposto a cessioni di sovranità a lento rilascio a favore dell’organizzazione europea, ma la sua condizione è sempre stata quella di “tenere il piede in due scarpe”. Quando si è trattato di entrare nell’area Schengen, ha detto no. Nella disciplina di Dublino, sul sistema d’asilo, ha adottato l’opt-out. Sull’Euro idem. Non è stata di certo l’unica a farlo: la Danimarca non è da meno. E altri Stati hanno fatto un po’ e un po’. Solo che il Regno Unito fa più notizia, ovviamente.

Per tutte queste ragioni, tuttavia, fare un continuo paragone tra l’uscita del Regno Unito e quella (ipotetica) dell’Italia non regge. Non regge perché da un lato l’Italia non ha il sistema economico del Regno Unito, hanno solidità (o insolidità) economiche diverse; dall’altro lato, il Regno Unito non ha gli stessi lacci normativi – regolamentari da sciogliere dell’Italia, che in caso di #exit si ritroverebbe in un intreccio molto più complesso.


Come leggere quindi questa #brexit? Una delle letture che a me risultano più lampanti è che, dal 2008, quando Obama è stato eletto e ha iniziato concretamente a realizzare la strategia Pivot to Asia, lasciando nelle mani della Merkel (da tre anni già cancelliere tedesco) la guida dell’Europa, il Regno Unito ha iniziato ad avere moti di “disagio” interno. Sia ai vertici che nei vari strati della popolazione.

Parlando un attimo dei vertici, la mia visione è che – non essendo riusciti a contrastare di fatto l’egemonia tedesca – hanno tentato il ricatto ed è andata male. Quindi la vedo non la vittoria di chi si è liberato dalle catene comunitarie, bensì la sconfitta di chi non è riuscito ad imporre la propria leadership a un gruppo (i Paesi UE) ed è andato via sbattendo la porta.

Il Regno Unito non ha mai voluto fare da comprimario a nessuno; non è fatto per stare in comunità se non come primus inter pares (vedi il Commonwealth). Non è adatto alla comunità non tanto perché, come sentito negli ultimi giorni, ha ancora pensieri imperialisti. Forse qualche inglese sì, nella propria testa li ha, ma per lo più l’isolamento “sociale” del Regno Unito è legato al suo essere isola. Come sempre la geografia spiega tante cose: essa influenza un popolo nel suo sviluppo e nelle caratteristiche che acquisisce.

La Germania, invece, per quanto ci abbia provato nei secoli, non è mai riuscita ad essere un vero impero: sembrava andarci vicino con Bismark a fine Ottocento, ma di fatto – dopo quella breve parentesi - è sempre uscito sconfitto da tutti i tentativi di imperialismo portati avanti. Anche adesso, nonostante il mandato e la benedizione americana, la Germania non riesce ad essere un vero leader: quando le si riconosce autorità, le si dà la stessa autorità che si dà a un tiranno.

Dal canto suo la Germania di adesso preferirebbe farsi gli affaracci suoi anziché doversi occupare, ovviamente per interessi suoi, anche degli affari degli altri. Lo fa a malincuore e, potremmo dire, per causa di forza maggiore. Una copertina molto azzeccata dell’Economist mi è sempre rimasta molto impressa: quella in cui la Germania era definita “L’egemone riluttante”.


La rivoluzione inglese

Dal punto di vista degli altri strati della società (tradotto: il popolo), la cosa è ancora più interessante. Tutti sapete che il Regno Unito non ha una Costituzione scritta. Esso vive e le sue istituzioni si reggono prevalentemente su consuetudini, regole non scritte, desunte da accordi fatti nel tempo e qualche decreto qua e là. Quindi potrete facilmente capire:

  1. l’astio naturale per l’iper-regolamentazione della normativa comunitaria (che sebbene non sia una britannica, sta in odio anche a me);

  2. l’incapacità psicologica di comprendere la necessità di un Trattato - Costituzione europea, come la si voleva fare nel 2004 (ricordate il meeting a Roma per la sua firma?), sebbene poi a farla fallire non siano stati i britannici ma siano bastati i referendum tenuti in Francia e Olanda;

  3. quanto per i britannici il referendum non sia la massima espressione della sovranità.

Ok, qui lo so, vi ho spiazzato!

Dunque, riflettiamo su una cosa: la democrazia inglese (nel senso di suo “impianto costituzionale”), in molti manuali di diritto pubblico comparato, viene fatta risalire al 1215 quando il re Giovanni Senza Terra (sì, il famoso principe Giovanni dei racconti su Robin Hood, il fratello di Riccardo Cuor di Leone) emanò la Magna Charta Libertatum. In un moto di tirannide (esattamente come descritto nel popolare racconto), il re aveva un po’ esagerato e le famiglie nobili decisero di metterlo al proprio posto - ve la sto semplificando al massimo, mi pare evidente - facendogli emanare una carta recante le libertà “fondamentali” per cui i baroni si liberavano dall’eccessiva tassazione, dagli arresti arbitrari (garanzia dell’habeas corpus) e da tante altre cosucce che servirono a dare una prima limitazione agli eccessi reali.

Altri manuali, invece, sostengono che i tratti veri del costituzionalismo inglese si delineano in seguito alle due rivoluzioni inglesi: la prima scoppia quando un altro re che aveva un po’ esagerato viene messo a posto stavolta da una rivoluzione "popolare" che porterà alla sua decapitazione (Carlo I, unico sovrano inglese a fare questa brutta fine) e l’instaurazione – per pochi anni – di una repubblica guidata da Cromwell che piano piano diventerà dittatore.


Singolare e molto simbolico ho sempre trovato un episodio legato a questo periodo: un giorno Carlo I si presenta al Parlamento, seguito da guardie armate e cortigiani, con l’idea di far arrestare cinque deputati colpevoli, a suo dire, di tradimento. Lo speaker della Camera dei Comuni (assimilabile al nostro presidente della Camera dei deputati), Lenthall, gli sbarra il passo dicendo:

Col permesso di Vostra Maestà, io non possiedo né occhi per vedere

né lingua per parlare in questo posto,

ma poiché la Camera si è compiaciuta di ordinarmi…”.

Con questa composizione arzigogolata, insomma, il caro Lenthall disse al re che la Camera gli aveva ordinato di non farlo passare. Da allora nessun altro re ha mai più osato mettere piede nella Camera dei Comuni. Ancora oggi, quando ai primi di novembre il sovrano tiene il discorso annuale, lo fa nella Camera dei Lord. Quel giorno, un gentiluomo di corte (Gentleman Usher of the Black Rod) viene mandato alla Camera dei Comuni per chiedere che “questa onorabile Camera” (This honourable House) si rechi nella Camera alta (la House of Lords) per ascoltare il discorso del re (o della regina, attualmente). Quando bussa la prima volta, la porta gli viene letteralmente sbattuta in faccia. Dopo tre tentativi gli viene aperto e il “povero” gentiluomo può finalmente formulare l’invito. A quel punto, lo speaker della House of Commons guida una processione che dalla Camera bassa si dirige alla Camera alta, dove il sovrano leggerà il suo Gracious Speech.

L’episodio risale al 1642; son passati quasi 400 anni e ancora il non ingresso del re nella Camera dei Comuni è parte delle regole del costituzionalismo inglese... parliamone! Iniziate a percepire come il Parlamento inglese sia davvero sovrano?


Continuando la nostra storia, dopo la morte di Cromwell, il figlio di Carlo I (il decapitato) riesce a ritornare sul trono d’Inghilterra ma scoppia subito la seconda rivoluzione inglese, nota anche come “Gloriosa rivoluzione”, e tutto questo porterà all’insediamento di un re “straniero” (Guglielmo d’Orange, dai Paesi Bassi con furore). Il tutto si conclude, a lieto fine, con un secondo atto giuridico, tuttora sacro per gli inglesi tanto quanto la Magna Charta del 1215, e cioè il Bill of Rights (dichiarazione dei diritti) del 1689. Esso sostanzialmente ribadisce i diritti sanciti dalla Magna Charta (in particolare l’habeas corpus che negli ultimi decenni era stato violato un po’ troppe volte, vedi gli arresti arbitrari che il re Carlo tentò di eseguire nell’episodio che vi ho appena narrato) e rafforza definitivamente il Parlamento a discapito della monarchia, la quale deve avere ben chiaro che finché rimane al proprio posto regge; se invece esagera verrà bacchettata.


Ora, perché vi ho parlato di queste due cose? Per farvi comprendere e sottolineare come per gli inglesi la democrazia stia nel Parlamento. Per loro il Parlamento è sacro. Quando in Francia non esisteva ancora lo Stato nazionale, quando la Germania era messa da parte addirittura dai suoi governanti che preferivano alloggiare nella bella Italia (mi riferisco ad esempio a Federico II di Svevia, che pur essendo stato imperatore del Sacro Romano Impero volle che le sue spoglie mortali risiedessero nel Duomo di Palermo), ecc. ecc. ecc., il Regno Unito aveva un Parlamento – ovviamente - e da lì è nata la democrazia britannica.


Quindi no, per gli inglesi la massima espressione della democrazia non è il referendum (quello dello scorso 23 giugno è il secondo nella storia inglese), ma per loro la massima espressione della democrazia sta nelle elezioni che nominano il Parlamento.

Tant'é che è il governo stesso a decidere se indire o no un referendum (su propria o altrui istanza) e l’esito del referendum non limita affatto l’arbitrio decisionale del governo – questo vuol dire che, teoricamente e anche praticamente, il Parlamento inglese e il governo non sarebbero obbligati a far uscire il Regno Unito dall’UE. Non so a quanti di voi sia chiara questa cosa.


Quindi, semmai, la grande prova di democrazia la avrete non dal popolo inglese, bensì dal Parlamento inglese che, pur non essendo costretto a farlo, molto probabilmente, anzi direi certamente, seguirà l’indicazione che il popolo gli ha dato.


Ogni volta che mi sento ripetere che bisogna far passare tutto attraverso il referendum, mi rendo conto che:

  1. molti son convinti che il referendum sia la sola forma di democrazia;

  2. molti altri non si fidano più della c.d. democrazia rappresentativa, cioè quella in cui io voto i miei rappresentanti e loro poi decidono per mio conto.


Democrazia diretta e democrazia rappresentativa hanno lo stesso valore

A questo punto mi vengono in mente due personaggi: il buon Jean - Jacques Rousseau e Platone.

Come tutti ricorderete, Rousseau parlava dell’uomo che esce dallo stato di natura siglando un contratto sociale con gli altri uomini, vale a dire un patto tacito tra individui che rinunciano al loro individualismo per farsi società e quindi, pragmaticamente, migliorare il proprio stile di vita.

Egli parla di “società giusta” in cui l’individuo “affida” i proprio diritti, intesi più che altro come particolarismi, alla società di cui fa parte. Dall’io particolare si passa dunque all’io comune all'interno del quale si possa realizzare la libertà, dal momento che nessuno è sottoposto all’arbitrio di qualcun altro bensì solo alla volontà generale che egli stesso concorre a formulare e a esprimere attraverso la legge.

L'obbedienza al corpo sovrano (sia esso monarca, governo, presidente ecc. ecc.) non rappresenta quindi una costrizione, dal momento che l'individuo non fa che obbedire a se stesso, al suo "io comune".

Affinché però ciò si realizzi, è necessario che tutti rinuncino completamente alla propria libertà particolare: questo è il presupposto dell'uguaglianza tra i contraenti che stipulano il contratto sociale.

Tuttavia, Rousseau, pur essendo astrattamente un grandissimo fautore della democrazia diretta (cioè quella esercitata direttamente dal popolo), la considera non concretamente realizzabile perché non tutti gli uomini hanno la virtù necessaria alla democrazia: vale a dire, la virtù di mettere tra parentesi il proprio io individuale in nome del bene comune.

Tradotto: già è difficile che a pensare al bene comune siano i soli parlamentari (un migliaio, in Italia); figuriamoci se a pensare al bene comune debba essere ciascun cittadino italiano! Praticamente e statisticamente impossibile.. ci sarà sempre qualcuno che si farà gli affaracci suoi. Rousseau infatti dirà:


"Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente.

Un governo tanto perfetto non si addice agli uomini."

Così alla fine egli conclude che sia più funzionale una forma di governo mista, che recuperi gli aspetti positivi del regime democratico temperandone i difetti.


Ora, non è un caso che Rousseau fosse ginevrino; la democrazia diretta fa parte della struttura sociale e dell’identità svizzera. Se ciononostante, pur impregnato di quel modo di concepire i rapporti individuo - Stato, Rousseau stesso arriva a sconsigliare l’applicazione della democrazia pura (così come delle altre forme di governo, sia chiaro!) a beneficio di sistemi misti (o temperati, come li definisce egli stesso), che prevedano un po’ e un po’, evidentemente anche la democrazia, come ogni creazione umana, non è perfetta.


Faccio un inciso: quando parlo di democrazia diretta mi riferisco a tutte quegli strumenti attraverso i quali il popolo esprime la propria volontà direttamente (referendum, petizione, proposta di legge di iniziativa popolare) anziché farlo attraverso i propri rappresentanti (che prende il nome di democrazia rappresentativa).


L’Italia è quello che Rousseau definirebbe sistema temperato, magari non perfetto ma comunque temperato, dal momento che prevede sia strumenti di democrazia diretta che strumenti di democrazia rappresentativa.


Su Platone ci sarebbe da dire molto e molto, il suo Protagora così come la Repubblica andrebbero letti e riletti, non necessariamente per dar ragione alla lettura platonica del mondo quanto perché leggerli sottopone la nostra mente a continue domande e riflessioni: quanto l’uomo è cambiato nel corso dei millenni? Quanto ritroviamo oggi di quel che descrive Platone? I vizi? I difetti? I pregi? Le qualità? Le ambizioni? Quanto sono cambiati, se sono cambiati, da allora?

Platone nella sua trattazione sulle forme di governo, quando parla della democrazia, afferma che essa non tiene conto del fatto che gli uomini non sono affatto uguali e soprattutto costituisce una rinuncia al principio di competenza.

In particolare però Platone mette in evidenza qualcosa, cioè quello che prende il nome di paradosso della libertà o della democrazia: l'eccesso di libertà induce i cittadini a consegnarsi a un difensore, solitamente un demagogo, il quale sollecita le istanze irrazionali degli individui e riesce a farsi consegnare ‘democraticamente’ il potere, trasformandosi in tiranno, ed eliminando tutte le libertà della democrazia.


Come smentire l’affermazione di Platone che gli uomini non sono uguali?

Io non sono in grado di farlo. Sono un’accesa sostenitrice dell’eguaglianza giuridica (tutti quanti abbiamo eguali diritti e doveri e pari dignità davanti alla legge) ma non riesco in alcun modo a dire che esiste l’eguaglianza sostanziale: ciò perché la Natura non è una forza democratica. In base a quale criterio la Natura avrebbe deciso di dare a me un naso a patata mentre a qualcun altro lo ha dato all’insù? In base a quale criterio, se non casualità o libero arbitrio, avrebbe dato a me più propensione per la matematica anziché per il disegno?


L’eguaglianza sostanziale non esiste e il voler continuare ad affermare, senza comprendere a pieno la portata dell’affermazione, che siamo tutti uguali senza distinguo è la prima forma della discriminazione e dell’ingiustizia. Non a caso, per fortuna, in molti processi pedagogici si sta affermando che i bambini, per il loro pieno e più sano sviluppo, debbono essere trattati in modo EQUO non UGUALE.

Due aggettivi che hanno significati molto diversi: il primo significa dare a tutti le giuste opportunità che servono per esprimere e sviluppare al meglio la propria individualità, la seconda invece significa applicare lo stesso metodo (per es. di apprendimento) indipendentemente dalle caratteristiche peculiari, e quindi caratteristiche diverse (leggi: non uguali) della persona che si ha di fronte. Concretamente la si sta discriminando e la si sta mettendo in difficoltà. Il paradosso dell’uguaglianza!


Ora, in questi giorni più che mai vedo chi, da un lato, dà degli ignoranti ai componenti del popolo britannico che hanno votato per l’uscita dall’UE e, dall’altro lato, chi dà a sua volta degli ignoranti a chi ha fatto propria la prima affermazione.

Ora, così come ho sempre sostenuto che il diritto di voto non è un voto davvero libero se si è formato in base a informazioni errate, distorte o addirittura non date, allo stesso modo sostengo che probabilmente molti dei britannici che hanno votato per il leave – così come probabilmente per il remain – non avessero esattamente ben chiaro cosa stessero facendo.


E in questa affermazione non c’è alcuna distinzione tra anziani e giovani; solo perché ho trentuno anni non credo che gli anziani debbano essere “rottamati” (per usare un termine in voga) perché non possono comprendere il mondo di oggi che non è fatto a loro misura e non credo affatto che solo i giovani siano in grado di leggere i tempi attuali.

Qui si ripropone il problema, che vi ho evidenziato all’inizio, di dover mettere sempre tutto all’interno di una categoria: giovani da un lato, anziani dall’altro; europeisti da un lato, antieuropeisti dall’altro. E così troppo spesso ci si dimentica che la società si compone di tutte queste “categorie” e tutti abbiamo bisogno di tutti; gli anziani non sono e non dovrebbero essere un peso; i giovani non sono e non dovrebbero essere scansafatiche o carni da macello iper-sfruttati.

La società ha bisogno di tutte le fasce d’età così come ha bisogno di tutti i lavori (se da avvocato ti consideri superiore a un netturbino evidentemente non cogli la differenza di puzzo ed igienica che passa tra una strada pulita e una sporca, e di certo non sono gli avvocati ad alzarsi alle 3 di notte per fare la pulizia delle strade. Né si può affermare che siccome le strade, ad es. qui a Roma, sono vere zozzure in certi punti allora i netturbini non servono. Probabilmente ci saranno netturbini scansafatiche così come ci sono avvocati “furbacchioni”; esattamente come ci saranno netturbini che lavorano ma - essendo in sottonumero - non riescono a completare al meglio il proprio lavoro tanto quanto avvocati onesti che davvero lottano per la giustizia ma che si trovano imbrigliati nelle maglie del malfunzionamento del sistema giudiziario e quindi impossibilitati a portare fino in fondo le proprie battaglie).

Maggiore competenza in un campo non significa superiorità. Sono due cose diverse.


Altre categorizzazioni dannose alla democrazia sono quelle che attribuiscono a determinati gruppi l’onestà o la superiorità morale.

L’onestà non è di un partito o di un movimento, l’onestà è di tutte le persone oneste. E se tu (tu impersonale) provi a togliere loro il riconoscimento dell’esistenza di quest’onestà, sei tu lo scorretto.

La superiorità morale non è di un partito o di un movimento. La superiorità morale di un gruppo non esiste, per il semplice fatto che la morale è qualcosa di individuale. Mi spiego meglio: il termine "morale" sta a indicare la condotta di un individuo che si comporta in quel modo perché ritiene che una certa norma (religiosa o laica che sia) così lo indirizza e, spesso, l'agire di tanti individui nella stessa direzione costruisce proprio i comportamenti sociali. Per citare Cicerone nelle sue Catilinarie: "O tempora, o mores!".

Si tratta di una condotta individuale, non collettiva.

Per cui se tu (tu impersonale) la ricolleghi a un gruppo stai snaturando la parola “morale” e soprattutto stai affermando che gli individui che fanno parte di quel gruppo son fatti con lo stampino, uno identico all’altro, per cui la morale dell’uno – che dovrebbe essere qualcosa del tutto personale – è sovrapponibile alla morale dell’altro. In pratica, robot o persone spersonalizzate.

Inoltre, se vogliamo proprio ipotizzare che la superiorità morale esista, essa ha la sua prima manifestazione nell’umiltà: chi è moralmente superiore non ha bisogno di gridarlo e sbandierarlo ai quattro venti; lo è e basta e, se questa superiorità davvero c’è, gli altri non potranno far altro che riconoscerla. E qui mi torna in mente un altro detto “Chi si loda si sbroda”.


Ora, tornando a noi: chi ha votato a favore del rimanere nell’UE e chi per andarsene? Citando Clark Gable, “francamente me ne infischio”. Per il semplice fatto che tutti avranno espresso il loro voto sulla base di quella che è la loro percezione dell’UE nelle loro vite. E chi sono io per dire loro che è giusto o sbagliato? È comunque un voto che rispetto. Uno Stato deve andare dove vuole il suo popolo e solo il Tempo potrà dirci se è stato un errore o meno.

Mi chiedo solamente, però, se un referendum sia lo strumento più adeguato per prendere cotanta scelta. A mio modo di vedere no, ma non perché io sia una tiranna. Bensì perché mi chiedo:

  1. Quanto le persone, non solo gli inglesi, ma anche gli italiani, sono in grado effettivamente di misurare quali sono le conseguenze sulle loro vite dovute alle politiche UE? Quali quelle connesse alle politiche nazionali? E quali sono una combinazione diabolica delle due? Chi può garantire a quegli inglesi che hanno votato per l’uscita, che una volta usciti non si ritroveranno comunque faccia a faccia con quelle problematiche nella stessa eguale misura?

  2. Quanto le persone sono in grado di misurare, in termini macroeconomici, le conseguenze di una decisione di questo tipo? Un conto è decidere di aderire a un’organizzazione “politica”, di cui è più semplice veicolare e comprendere il messaggio e quindi anche più semplice decidere: sì mi piace, no non mi piace. Ma davvero vi sentite in grado di misurare le conseguenze, finanziarie e non, dell’entrata o dell’uscita da un’organizzazione di integrazione economica, per di più sui generis, come l’UE? Se sì, chapeau! Io studio questi temi dal 2004 e ciononostante non mi sento in grado di avere una visione convinta di tutti i risvolti, perché la materia è molto complessa. E' più facile decidere se fare guerra o meno alla Francia per antipatia che decidere se uscire o rimanere nell'UE, dal mio punto di vista.

  3. Quanto le persone sono in grado di distinguere gli effetti negativi che veramente l’UE ha causato da quelli che i politici attribuiscono all’UE per non prendersi il demerito di aver fallito loro con le loro politiche nazionali? L’arte dello scaricabarile è molto usato e abusato in Italia. Alcuni degli altri Paesi non sono di gran lunga differenti su questo fronte.


Cultura e consapevolezza

Ieri ho provato – riuscendoci a stento – a far capire a mio fratello, che ha un buon comprendonio e una buona cultura, la differenza tra politica fiscale e politica monetaria e perché sia preferibile che queste viaggino a braccetto. Già conoscendo questa differenza, si potrebbe comprendere metà della realtà comunitaria: cause, decisioni ed effetti. Ma io non posso pretendere che tutti la sappiano, e infatti non lo pretendo. Ma che tutti pretendano di poterne fare a meno e pensare di fare comunque una scelta consapevole, beh, la considero arroganza.

La cultura va difesa perché è l’unico mezzo che ci consente di essere consapevoli. Nel momento in cui la declassiamo, pensando di poterne fare a meno, non siamo più padroni del nostro destino.

La mia non vuole essere una considerazione classista: il mio sito nasce proprio per diffondere la cultura, soprattutto internazionale, a tutti i livelli. Uscire dall’accademia e parlare con tutti coloro che riesco a intercettare. Se lo faccio è perché sono convinta che tutti abbiano in sé i semi per poter comprendere e conoscere.

Ma tra i semi e le piantine c’è un percorso, concime e innaffiatura. Nel percorso di crescita culturale, concime e acqua sono costituiti da studio e approfondimento. Se senza aver fatto quello, i semini pretendono di essere e comportarsi come piantine stanno in primo luogo mentendo, a se stessi soprattutto. E in secondo luogo stanno facendo un gran peccato di presunzione.

Inoltre, così facendo sminuiscono il valore della cultura e dello studio: declassare questi due valori ci ha portato a dove stiamo adesso. Continuare a farlo non potrà che far peggiorare le cose.

Per prendere alcune decisioni, è necessario riconoscere di averne o non averne le competenze. Tu, padre di famiglia, prima di prendere una decisione quanto ci rifletti su? Quanto pensi a come sono messe le finanze generali, le condizioni dei tuoi figli, se puoi permetterti un passo oppure no? Ebbene, perché tu, padre di famiglia, non dovresti informarti ed essere effettivamente consapevole di come stanno le cose prima di prendere una decisione come l’uscita dall’UE che influenzerà indubbiamente la tua vita quotidiana?


Certo, il primo pensiero è: se esco dall’Unione Europea finalmente non dovrò più stare attento alle curvature delle banane o alla larghezza delle vongole. Finalmente!

Ma qualcuno gli dirà mai che l’Unione europea garantisce diritti minimi al di sotto dei quali le leggi nazionali non possono andare? E che invece, uscire dall’UE, significa che quelle soglie minime possono essere modificate al ribasso e nessuno potrà più dire nulla al legislatore nazionale visto che i sindacati o sono “conniventi con il potere” o semplicemente “se ne infischiano”? Nel caso britannico, una delle prime cose venute in luce è la tutela delle donne in maternità: la legislazione europea prevede un certo standard. Quella inglese uno standard più basso. Le prossime mamme inglesi quanto saranno contente di ciò?


Siamo davvero molto abituati a sentirci dire cosa non va nell’UE. Ma molte poche persone ce ne raccontano i pregi. E troppo poco spesso si pensa a cosa saremmo adesso se l’UE non ci fosse mai stata. Probabilmente l’Italia sarebbe un moscerino schiacciato dal gigante cinese. Economicamente surclassato.

Io sono la prima ad aver messo sotto la lente di ingrandimento le criticità e le incongruenze della c.d. Unione Europea, ma non necessariamente guardare la realtà in faccia e chiamare le cose con loro nome – anziché raccontarsi la bella storiella dell’Europa dei popoli perfetta e impeccabile – significa esserle contraria. Anzi, è un po’ come quando rimprovero mia sorella o le faccio notare qualcosa che non va. Di certo non lo faccio con le intenzioni di distruggerla, ma con quella di aiutarla a migliorarsi.


Conseguenze

Ora, quali saranno le conseguenze della Brexit:

a. probabilmente i balzelli della borsa dureranno per un po’, nessuno era davvero preparato all’eventualità dell’uscita inglese, neanche lo stesso Cameron che ha invocato il referendum;

b. molte cose cambieranno per i cittadini e per le imprese, ma il Regno Unito, a ben vedere, non ha ancora presentato la notifica di cui all’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea (adottato a Lisbona nel 2007. Prima era impossibile, giuridicamente, per gli Stati lasciare l’Unione).

Vi riporto per completezza l’articolo per esteso, soprattutto perché voglio puntualizzare una baggianata che ho sentito dire l’altro giorno in TV da un giornalista molto accreditato, in riferimento al paragrafo 4 (ve lo evidenzio in grassetto):


1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.

2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.

3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine.

4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s'intende quella definita conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

5. Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49.


L’esimio giornalista di cui sopra ha interpretato la parte in grassetto in questo modo: le condizioni dell’uscita saranno decise solo dall’Unione perché il Regno Unito non può partecipare alle deliberazioni sul punto.

Dunque, quello che l’articolo dice è un’altra cosa: giustamente il testo stabilisce che, dal momento che si tratta di un accordo UE-Regno Unito, il rappresentante del Regno Unito che sta dentro al Consiglio UE non può votare due volte, altrimenti avremmo il Regno Unito che da un lato, come governo, contratta l’accordo e, dall’altro lato, il Regno Unito che tramite i suoi rappresentanti all’interno dell’Unione controfirma lo stesso accordo. In pratica, se la canta e se la suona. Nella migliore delle ipotesi, potremmo chiamarlo conflitto d’interessi.

Quindi non è assolutamente vero che il Regno Unito, come qualunque altro Paese che decidesse di uscire, non potrebbe contrattare le condizioni dell’uscita. Ora è vero tutto, ma tirannica fino a questo punto l’UE non lo è!


c. Son pressoché certa, tuttavia, che il governo inglese presenterà la notifica di recesso a meno che, dopo un’approfondita analisi (di cui io non posso disporre), venisse fuori che l’uscita equivarrebbe a dissesto finanziario. Due anni al massimo per l’uscita, nel tempo umano, sembrano molti; ma economicamente 2-3 anni è quello che viene detto “breve periodo”. Uno Stato può in così breve tempo prepararsi a un cambiamento così radicale?


d. C’è da notare che la principale ricchezza del Regno Unito è la finanza, senza nulla togliere al resto. La City è ancora qualcosa di molto importante e può macinare terreno a dispetto di ogni previsione. Sta alla bravura dei finanzieri e degli operatori economici. Diverso sarà per la bilancia commerciale: verso dove esporterà i suoi prodotti, non finanziari, il Regno Unito? Probabilmente dovrà comunque fare riferimento al mercato europeo, ma – a meno che – non strappi in trattativa condizioni vantaggiose, per entrare nel mercato europeo adesso si ritroverà i dazi che l’UE potrebbe mettere ai confini. Per intenderci, un oggetto hi-tech prodotto in Inghilterra lì costerebbe 2, l’UE all’ingresso mette il dazio di 1, quindi nel mercato europeo quel prodotto sarebbe venduto a 3, diventando svantaggioso in termini di competizione perché magari lo stesso prodotto in Italia costa 2,5. Quindi, se il Regno Unito fosse stato ancora nel mercato europeo il suo prodotto lo avrebbe venduto (2 contro 2,5), con il dazio invece ci rimette (perché è 3 contro 2,5).

Paradossalmente, quindi, mi viene da pensare che la Brexit sia più dannosa per il Regno Unito che per l’UE. Però, trattandosi del Regno Unito, è un’economia che potrebbe reggere, in linea di massima.


Il messaggio per gli altri Paesi dell’Unione potrebbe essere “ci stiamo disgregando, may day may day!”. In realtà io la vedo più come il momento delle “pulizie”: è davvero tanto tempo che non siamo più Unione, bensì Disunione Europea. Per cui fare chiarezza su chi vuole davvero stare dentro e chi invece vuole andarsene non fa altro che chiarire le idee a tutti quanti.

D’altronde, l’allargamento spasmodico, foraggiato a tutti i costi dalla Germania, del 2004, verso Paesi che non erano pronti a stare al passo, per deficienze strutturali che ancora richiedevano tempo per essere sanate, ha trasformato l’Unione Europea in una organizzazione di beneficenza. Anche se altri Paesi dovessero andare via, il risultato sarebbe duplice:

  1. Rimane il nocciolo duro di chi è davvero convinto dell’ideale europeo e magari, finalmente, lo si riesce a realizzare o comunque ad andarci più vicino;

  2. Si sancisce il fallimento della politica europea della Germania che per l’ennesima volta nella sua storia anziché unire ha diviso.

Tuttavia, pensare che l’Italia possa essere tra coloro che potrebbero abbandonare subendo "solo" gli stessi danni che subirà il Regno Unito, è da sognatori. L’Italia non ha al momento le strutture economiche per sopportare l’onda d’urto da cui sarebbe investita e, soprattutto, i cittadini si ritroverebbero a dover constatare amaramente che il 90% dei problemi che attribuivano all’Europa non erano dovuti all’Europa. Se li ritroveranno ancora tra i piedi, e dovranno riconoscere di essere stati ingannati.

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