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Arabia Saudita: la madre di tutti i Jihad – Parte Seconda


Alcune nozioni sull’Islam

Dunque, non sono un’esperta di Islam, ne so solo un po’. Ma credo che quel po’ sia sufficiente a comprendere certi meccanismi. Perciò, quel che so ve lo racconto.

La principale distinzione – tutti ne abbiamo sentito parlare almeno una volta – è tra sunniti e sciiti:

  1. il termine sunnita (dall'arabo Ahl al-Sunnah) significa “il popolo delle tradizioni [di Maometto]”, per cui gli appartenenti si ritengono la scuola di pensiero più ortodossa e tradizionalista dell'Islam;

  2. il termine sciita (dall'arabo Shi'atu Ali) indica i “sostenitori [politici] di Ali”, genero di Maometto.

Difatti, quando Maometto morì (632), alcuni musulmani (futuri sunniti) sostennero che il nuovo leader (il legittimo califfo) fosse Abu Bakr, compagno di Maometto e importante studioso islamico; mentre i futuri sciiti ritenevano che il califfato dovesse essere assegnato per discendenza e quindi spettasse a Ali ibn Abi Talib, genero del profeta, non avendo Maometto figli maschi. Gli sciiti vengono considerati eretici dai sunniti, i peggiori nemici dell’Islam, a differenza di ebrei e cristiani che sono considerati “semplicemente” miscredenti.

Mentre nell'Islam sunnita il califfo è un leader politico e l’imam è una figura religiosa, nella corrente sciita le due figure si fondono. O meglio, quella dell’imam prevale racchiudendo in sé la leadership spirituale, religiosa e politica.

Alì divenne il quarto califfo ma per consolidare il potere personale si scontrò con la moglie del Profeta, nonché suocera, Aisha. Questa venne sconfitta ma ciononostante si raggiunse un accordo che consentì la sopravvivenza del ramo musulmano che la sosteneva (sunniti). Senonché, nel 680, Hussein, il figlio di Alì, fu ucciso dal califfo Yazid della dinastia degli Omayyadi, nell’attuale città irachena di Kerbala (città santa per gli sciiti tanto quanto La Mecca, in quanto questa uccisione costituisce la perdita della guida dell’Islam da parte dei discendenti del Profeta).

Arrivati al XII imam, questi all’improvviso sparisce. Secondo i sunniti è stato ucciso, secondo gli sciiti si è nascosto e tornerà.

Completamente estraneo alla contrapposizione sunniti – sciiti è il sufismo, il ramo ascetico, filosofico e di sicuro anche il più erudito dell’Islam. Tra i massimi esponenti del sufismo vi è per esempio il poeta Jalāl al-Dīn Rūmī, che ha fondato i dervisci rotanti (la parola “derviscio” significa “poverello”, visto l’abbigliamento a dir poco essenziale e lo stile di vita scevro da ogni ricchezza che conducono).


Altra figura interessante del sufismo è per esempio Ibn al Arabi, di Murcia, contemporaneo di Averroé (quel musulmano senza il quale le opere di Aristotele sarebbero andate completamente perdute...). Egli era giurista e filosofo, che nel tempo si spostò dalla Spagna verso il Nord Africa e poi il Medio Oriente, dove “conquistò” migliaia di seguaci. La sua tomba è a Damasco.

I sufi sono pacifici ma non pacifisti: se devono schierarsi e lottare lo fanno, basti pensare ai sufi del Caucaso che già in passato sono stati protagonisti di battaglie e che adesso, per esempio nel Dagestan, sono l’unica forma di resistenza vera contro le azioni dei jihadisti. Dai sufi partì e poi si sviluppò in altro senso la confraternita dei Senussi, cui appartenne per esempio Omar Al Mukhtar (foto sotto), che costituì l’ultima resistenza armata all’ingresso degli italiani nella Cirenaica degli anni ’30. Dopo la sua impiccagione per processo sommario fatto dagli italiani, è ora considerato eroe nazionale libico.


All’interno dell’Islam, si parla ovviamente di jihad. Non è qualcosa che ci siamo inventati noi. Nel Corano si parla di due Jihad, il piccolo jihad e il grande jihad. La parola “jihad” significa “sforzo”. Il piccolo jihad (alJihad alAsghar) è la guerra difensiva (anche all’interno del proprio territorio, nel senso che è ammessa la ribellione quando il leader di turno devii dall’insegnamento del Corano); il grande jihad (alJihad alAkhbar) è lo sforzo esercitato dall’individuo all’interno di se stesso, per vincere le passioni ed educare la propria psiche (“Il Jihad più meritevole è un pellegrinaggio compiuto piamente”, XXV, 4, 2). Quindi, la guerra aggressiva dal Corano non sarebbe ammessa. Il termine “guerra santa”, “paradossalmente”, l’Islam lo ha mutuato dal Cristianesimo: l’espressione fu infatti coniata da Pietro l’Eremita per la prima Crociata, voluta da Papa Urbano II nel 1096.

Ovviamente, non starò a spiegare tutte le diramazioni che l’Islam può assumere, non ne usciremmo più. Mi concentrerò sugli aspetti secondo me necessari a comprendere le dinamiche principali: wahhabismo, islam politico, salafismo e salafismo jihadista. Oltreché i rapporti tra religione e Stato all’interno del mondo musulmano.


Il Wahhabismo

In ordine cronologico, il primo orientamento a nascere è quello wahhabita, che come vi ho raccontato all’inizio dell’articolo risale alla fine del ‘700 ed è sopravvissuto al tempo grazie al patto “politico” con la tribù dei Saud.

Tipica della predicazione di Wahhab è l’ostilità alle «deviazioni» dottrinarie quali il culto dei santi, delle tombe e dei santuari, considerate innovazioni impure e idolatria, che vanno risolte cancellandone ogni traccia. Centrale nel wahhabismo è il concetto di takfir, colui che rifiuta l’autorità assoluta (il sovrano saudita) o che pratica il culto in maniera sbagliata ed eretica. Per Wahhab tutti i musulmani devono giurare lealtà a un solo capo (il Califfo, nel caso che ci sia) e quelli che non lo fanno dovrebbero essere uccisi, le loro mogli e figlie violentate e i loro averi confiscati. Abd al-Wahhab denunciò tutti i musulmani che onoravano i morti, i santi o gli angeli. Riteneva che tali sentimenti distraessero dalla completa sudditanza che bisogna avere verso Dio, il solo Dio. Il wahhabismo perciò bandisce qualunque preghiera a santi e defunti, pellegrinaggi alle tombe e speciali moschee, feste religiose che celebrino santi, onorare il compleanno del Profeta Maometto, e proibisce anche l’uso delle lapidi per seppellire i defunti.

Abd al-Wahhab richiese conformità a tali precetti, una conformità che doveva essere dimostrata in modi fisici e tangibili. La lista degli apostati che meritavano la morte includeva sciiti, sufi e altre denominazioni musulmane, che Abd al-Wahhab non considerava affatto musulmane.

Apparentemente niente differenzia il wahhabismo dall’ideologia dell'IS. La crepa emerge solo andando oltre: l'istituzionalizzazione della dottrina wahhabita "Un sovrano, Un’Autorità, Una Moschea”, in cui questi tre pilastri si riferiscono rispettivamente al sovrano saudita, all’autorità assoluta del wahhabismo ufficiale e al suo controllo de “la Parola” (i.e. la moschea). L’IS invece rinnega questi tre pilastri.


Islam politico vs. Salafismo

A parte i semi del wahhabismo dal '700 in poi, nel mondo musulmano il pluralismo ottomano riusciva a garantire la coesistenza di popoli diversi per etnia e religione, mentre l’Europa era in continuo subbuglio dovuto anche e soprattutto alle guerre di religione di Cinquecento e Seicento. Infatti, pur non essendoci la parità dei diritti e dei doveri tra cittadini come la intendiamo oggigiorno, vi era l’istituto della dhimmitudine, uno status giuridico riconosciuto a non musulmani membri della Gente del Libro (Ahl al-Kitab o Ahl al-Dhimma (la gente della protezione), cioè ebrei, cristiani, zoroastriani, yazidi, mandei ed altri) che garantiva loro il diritto di esistenza e una certa protezione all’interno del sistema musulmano.

Tuttavia, al momento della caduta dell’impero ottomano in seguito alla sconfitta nella I guerra mondiale, da un lato i nazionalismi (avviati dai Giovani Turchi negli ultimi anni di vita della Sublima Porta) e dall’altro la spartizione del Medio Oriente fatta con l’Accordo Sykes-Picot (1916) citato sopra, gli equilibri saltano e una serie di Stati “in versione europea” nascono nella regione, risultando in realtà in vere e proprie soluzioni ibride tra modello occidentale e quello musulmano dal momento che mantengono la sharia per disciplinare lo statuto personale e il diritto di famiglia. A questo punto il mondo musulmano inizia a interrogarsi sul perché Dio abbia permesso l’abolizione del califfato e la sottomissione di popoli credenti da parte dei kuffâr (miscredenti).

Gli intellettuali musulmani sostennero che per ritornare agli antichi splendori, la società islamica doveva tornare a praticare il “vero islam”. Ma il punto era proprio: cos’è il “vero islam”?

Nasceranno due correnti di pensiero opposte:

  1. la soluzione è un islam rigorista, chiuso ad ogni idea di progresso, che si attenga scrupolosamente, nelle forme come nei contenuti, alla società medinense governata dal Profeta nel VII secolo;

  2. il “vero islam” è la religione della ragione e del progresso, come attestano le miriadi di versetti coranici che sfidano l’uomo ad indagare il creato per verificare i segni dell’esistenza del Creatore.

All’interno del mondo sunnita, nel corso dei decenni, si distinguono due orientamenti principali: islamismo politico e salafismo.

L’islamismo politico pone la sharî’a al centro della vita politica del mondo musulmano attraverso un processo graduale che parta dalla situazione esistente. Al suo interno nasce la confraternita dei Fratelli Musulmani, fondata nel 1928 da Hassan el Banna, un insegnante, che verrà assassinato nel 1949 dalla polizia segreta di re Farouk. La Fratellanza inizialmente aveva portata sociale, costituita da elementi della borghesia egiziana erudita. Dopo l’uccisione di el Banna, si passerà dal sociale al politico ed ideologico, attraverso l’opera di Sayed Qutb, anch’egli insegnante, secondo il quale l’Islam aveva perduto completamente di identità, soprattutto nel periodo coloniale. Nei primi anni ’50 Qutb fu mandato negli USA dopo aver vinto una borsa di studio, ma per lui l’esperienza non fu edificante: trovò il modello americano completamente devastante dal punto di vista morale e religioso. Tornato in Egitto entrò a far parte dei Fratelli Musulmani e iniziò la sua opera di scrittura, all’interno della quale sostenne che l’Islam militante non può definirsi terrorismo.

Questo suo pensiero gli costò la prigione e nel 1966 Nasser lo fece giustiziare dal momento che, dopo esser stato aiutato nell’ascesa al potere dai Fratelli Musulmani (che consideravano la precedente monarchia corrotta), i seguaci di Qutb consideravano nocivo anche il nazionalismo arabo così come Nasser lo stava interpretando. Nasser quindi considerava i Fratelli Musulmani come una calamità politica, li etichettò come islamismo radicale e sciolse il movimento.

Tra alterne vicende essi riuscirono però a sopravvivere innanzitutto perché si “autoconcessero”, con una propria interpretazione del Corano, la possibilità di dissimulare il proprio credo: cioè, potevano evitare di proclamarlo apertis verbis per evitare la repressione. Al contempo, il fatto di essere stati dichiarati fuori legge li spinse, oltre che alla clandestinità, anche all’esodo verso altri Stati (Tunisia, Algeria, Marocco, Siria, Giordania, ecc.) il che ne ha nettamente favorito la diffusione. Ci furono ondate di Fratelli Musulmani anche verso l’Europa (in particolare Francia, Inghilterra e Italia): attualmente, uno dei massimi esponenti dell’Islam europeo è Tarek Ramadan, nipote di El Banna (il fondatore dei Fratelli Musulmani), il quale propone una moratoria delle pratiche più retrive e degli hadith più controversi.


In realtà, in sé e per sé, Qutb non era un radicale ma il suo pensiero sarà recepito e influenzerà la visione di alcuni gruppi radicali, sia interni all’Egitto (vedi il gruppo che organizzerà nel 1981 l’uccisione di Sadat, presidente egiziano) sia esterni. Tra coloro che presero il pensiero di Qutb alla lettera, estremizzandolo, molti emigrarono in Arabia Saudita dove trovarono buone collocazioni. Infatti il regno dei Saud non aveva al tempo un numero sufficiente di insegnanti preparati nel diritto islamico, perciò accolse i Fratelli Musulmani esiliati (che ricordiamo, appartenevano alla borghesia e per lo più erano appunto insegnanti, quindi classicamente definibili come eruditi). La Fratellanza, però, una volta in Arabia Saudita si è dovuta in qualche modo “compromettere” con la religione di Stato, il wahhabismo.

Questa crasi tra wahhabismo e islamismo politico ha dato vita al salafismo (da “salaf” “antenati”, riferito alle prime tre generazioni di musulmani quali esempio di fede e morale), che prevede un rigorismo utopico che rifiuta qualunque tipo di compromesso con ciò che non è islamico. Dal wahhabismo prende l’ideologia takfirista, cioè la condanna a miscredente di ogni musulmano – anche sunnita – che manifesti opinioni diverse dall’ideologia del gruppo. Pur mantenendo forme esteriori strettamente tradizionali, a partire dall’acconciatura e dell’abbigliamento, la maggioranza dei salafiti tuttavia rifiuta l’islam tradizionale e il suo apparato giuridico ed interpretativo secolare, di cui sono depositari gli ulema istituzionali. I salafiti si volgono ad un’applicazione più letterale e diretta del Corano e della Sunna, affidando l’ijtihâd (cioè il lavoro di estrapolazione dai testi del Corano e della Sunna di norme per la vita individuale e sociale) a sceicchi ed emiri noti per la loro pietà o il valore in battaglia, più che per la loro scienza.


Non è quindi un caso che il così neonato salafismo si sia diffuso in tutte quelle zone dove il pensiero autentico dei Fratelli Musulmani non era giunto (vedi Pakistan e dintorni, puntando ad entrare nell’Asia centrale). Qui ha trovato ad aspettarlo l’Islam deobandi (diffuso nella zona indopakistana), considerato da molti radicale di per sé, ma che in realtà, più che essere antioccidentale era anticoloniale, dal momento che nasce in funzione antibritannica quando l’India era ancora una colonia. Questa commistione esplosiva non ci fa dunque rimanere sorpresi davanti al fatto che il jihad contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan sia partito dall’Arabia Saudita e sia stato utilizzato dai servizi segreti pakistani (ISI) a proprio uso e consumo; così come non è un caso che tra i tanti posti in cui poteva andare, Osama Bin Laden, dopo la cacciata dall’Arabia Saudita e un soggiorno in Sudan, sia andato a rifugiarsi proprio tra Afghanistan e Pakistan.

Ora, il salafismo non è sinonimo di jihadismo, dal momento che al suo interno vi sono anche i gruppi rigoristi del wahhabismo saudita o del salafismo missionario che non promuovono il jihad armato. Tuttavia, esso costituisce – come abbiamo appena visto - un ottimo trampolino: è sufficiente per i salafiti jihadisti considerare il takfir (la condanna di miscredenza) come una legittimazione legale alla violenza contro i soggetti “infedeli” per dare avvio al jihad armato. Basti pensare a come l’IS prima di eseguire condanne o esecuzioni si "preoccupi" di denunciare lo status di kafir (miscredente) della persona che sta per essere uccisa. Allo stesso modo ciò valeva prima per al-Qaeda e vale ora per Boko Haram.


Rapporto tra Islam e autorità statale

Ultime nozioni fondamentali prima di passare al 1979.

Sento spesso dire che nel mondo musulmano non c’è separazione tra religione e autorità statale. In parte è così, ma non lo è nei termini in cui siamo abituati ad immaginarla. Non funziona come nel Papato di un tempo in cui potere religioso e temporale si fondevano ed erano interdipendenti in maniera incredibile.

Non si può negare che nel mondo musulmano delle origini questo legame ci fosse e avesse un suo perché; attualmente, in alcuni Stati c’è e anche lì ha un suo perché.


Ora, chiariamoci un attimo come funziona il diritto islamico. Non perché io voglia farvi una lezione di diritto, ma perché l’espressione palese di quando uno Stato è clericale o laico è nel diritto. Se il legislatore, l’autorità statale, adotta o meno leggi che abbiano connotazioni religiose. Nel concreto, gli Stati a popolazione musulmana adottano la Sharia come legge di Stato? E che cos’è la Sharia? Quando si parla di fatwa, di hadith, di cosa stiamo a parlare?


In origine, la classe giuridica islamica non era soggetta all’autorità statale, semplicemente perché lo Stato non esisteva. Nel dar al Islam, il mondo musulmano, vigeva sostanzialmente l’autogoverno delle realtà locali (il signorotto di turno difendeva semplicemente dagli attacchi esterni, di certo non si metteva a legiferare!). Inoltre, il diritto, oltre ad essere autogestito, non era scritto!


I funzionari giuridici sono 4:

1. Mufti (specialista privato legalmente e moralmente responsabile nei confronti della società in cui viveva), il quale emetteva la FATWA (responso legale su una singola questione sottopostagli, a titolo gratuito).

NB. La Fatwa non è vincolante, ma vista l’autorevolezza suprema del mufti veniva generalmente accolta senza alcuna opposizione;

2. Autore-giurista, che raccoglieva in trattati e commentari le FATWA più rilevanti e necessarie a risolvere i problemi dell’epoca, emesse dal mufti [ciò significa che col passare del tempo e il cambiare delle esigenze e dei problemi che si affrontavano, alcune FATWA cadevano in desuetudine e il mufti poteva trovarsi a pronunciare pareri del tutto nuovi. Ad esempio, da noi in Italia le norme sulla colonìa agricola sono cadute in desuetudine perché la colonìa stessa non si ha praticamente più; così come la normativa sulle telecomunicazioni è sempre in aggiornamento, e il diritto deve stare al passo col tempo]

3. Qadi (giudice), basandosi sui testi redatti dagli autori-giurista, decidevano i casi che arrivavano davanti a loro. Tuttavia, il Qadi non era solo un giudice, ma presiedeva alla vita della comunità con cui doveva avere una certa familiarità per meglio risolvere i conflitti che nascevano al suo interno.

4. Professore di diritto, intorno al quale si riuniva un circolo di studenti e che insegnava gratuitamente. Alla fine del “corso di studi” non era lasciata alcuna certificazione, solamente una licenza di trasmissione in cui il docente attestava che lo studente aveva imparato i contenuti di un libro e da allora in poi poteva insegnare a sua volta su quegli specifici contenuti.

Non era raro che la stessa persona, particolarmente autorevole, ricoprisse tutti e quattro i ruoli.


Le fonti del diritto islamico sono quattro, e non solo il Corano come molti affermano. Esse sono:

  1. Il Corano, che contiene circa 500 versetti legali (gli altri sono teologici, esortativi, ecc.)

  2. La Sunna (“Modello”), che è praticamente la biografia di Maometto, il racconto della sua vita quotidiana, composta da HADITH che sono i singoli racconti (di oltre 500.000 hadith solo 5000 sono stati selezionati come hadith “sani”, cioè trasmessi fedelmente). Gli hadith si dividono in autentici, attendibili, non attendibili e falsi (a seconda del processo di trasmissione seguito nel tempo) e solo con una grande erudizione è possibile districarsi nell’interpretazione di questi. Se un hadith contrasta con precetti del Corano, il Corano prevale;

  3. Il CONSENSO, cioè l’accordo della comunità (impersonata dai suoi giuristi più autorevoli) su determinati precetti, cercando però fondamento nel Corano o negli hadith.

  4. QIYAS che offre un insieme di metodi attraverso cui i giuristi arrivano a stabilire le norme. Esempio tipico è il metodo dell’analogia. L’insieme dei processi di ragionamento utilizzabili dai giuristi prende il nome di IJTIHAD (N.B. il diritto islamico è per lo più un prodotto dell’IJTIHAD, per cui non “fossilizziamoci” troppo sul Corano. Su vi ho sottolineato che il salafismo ha la sua forza proprio nell’uso che fa dell’ijtihad).


Tutto ciò - le fonti e gli operatori giuridici - rendevano il diritto islamico flessibile ed evolutivo, cioè si adattava a diverse situazioni concrete (non essendoci una rigida norma scritta) e ai tempi che cambiavano. Intorno ai maestri, piano piano si formano le scuole giuridiche (nel senso di orientamenti): quattro sunnite (hanafita, malikita, shafiita e hanbalita) e due sciite (zaydita e duodecimana o giafarita). Se tu aderivi a una scuola, consideravi le opinioni del fondatore come quelle di un “primus inter pares”, ma nulla ti vietava di attingere a quelle di altri autori.Ovviamente quando ti allontanavi troppo dalle opinioni del fondatore della scuola, sostanzialmente la stavi abbandonando.Il responsabile della metodologia di una scuola è l’IMAM.

Ora, come potete osservare rileggendo le righe appena superate, dello Stato non c’è presenza alcuna.


In realtà, dopo i primi Califfi (che erano espertissimi di legge e quindi non avevano bisogno di legittimazione alcuna agli occhi del popolo), successivamente la legge veniva a porsi come ponte, come collante, come anello di congiunzione, tra il popolo (con cui il giurista doveva avere familiarità per decidere nel modo più opportuno e giusto una causa) e il potere dominante di turno. È quindi quest’ultimo che ha bisogno assoluto della “collaborazione” dei giuristi: solo se i giuristi, infatti, riconoscevano la legittimità ai regnanti il popolo li seguiva. Altrimenti avrebbe continuato con il proprio autogoverno che funzionava benissimo.

Così, nacquero le madrase, cioè le scuole di legge (scuole in senso fisico). E le più prestigiose, guarda caso, furono fondate dai regnanti, che ovviamente provavano ad amicarsi più giuristi possibili, e soprattutto i futuri giuristi che, allora studenti, avrebbero beneficiato dei “servizi” della madrasa. Nell’XI secolo il visir selgiuchide Nizam Al Mulk fonda a Baghdad undici grandi madrase e nel giro di poco tempo anche al Cairo, a Damasco e a Istanbul si avranno scuole di legge di cui i sovrani potevano nominare e destituire i docenti.

Piano piano la figura del qadi (il giudice) fu completamente istituzionalizzata e retribuita dall’amministrazione statale, sebbene non tutti i giuristi venissero ancora “sfornati” dalle madrase. Così iniziano ad aumentare i posti per insegnanti all’interno delle madrase e quindi anche il numero degli studenti. Dal XVI secolo in poi, con gli ottomani, viene data alle famiglie di giuristi il monopolio della professione legale e viene istituita una madrasa per ogni città conquistata finché non si fece un progressivo accentramento delle madrase su Istanbul. In questo modo lo SHAYK AL ISLAM (il gran mufti) divenne la figura religiosa suprema dell’impero, il solo responsabile di nomine e destituzione dei giudici, ma soprattutto per lungo tempo egli fu il solo che poteva deporre i sultani.


Nel mondo musulmano non esistevano i tribunali; prima di andare “in giudizio” davanti a un qadi, si cercavano soluzioni a livello di famiglie, di tribù, di quartiere, soprattutto per un motivo: se un individuo veniva condannato, trascinava nel disonore tutta la sua famiglia (in senso allargato). Quindi prima di giungere a una qualche pronuncia potenzialmente dannosa, si cercava di risolvere la cosa. Era sempre questo il motivo che induceva ad evitare le sentenze di totale condanna: si lasciava un appiglio che consentisse il reinserimento nella società del condannato. In questo sistema originario, i poveri erano trattati come i ricchi, i non musulmani in genere ottenevano più ragione dei musulmani (non sono rari i casi documentati in cui i cristiani, per esempio, del luogo decidevano di rivolgersi alla giustizia islamica per risolvere una controversia), le donne godevano di maggiore tutela rispetto agli uomini. Le donne infatti facevano spesso causa e molto spesso le vincevano; pur essendo consentita la poligamia, non era molto diffusa, perché la donna poteva chiedere il divorzio e, se l’otteneva, esso era molto oneroso per il marito. Infatti, il divorzio chiesto dalla moglie (KHUL’) era molto più frequente di quello chiesto dai mariti. Le donne erano in genere quelle che gestivano le “fondazioni pie”, attraverso le quali nascevano poi le madrase. Le donne erano quelle che avevano i maggiori patrimoni.

Non essendoci tribunali, nel diritto islamico non c’erano nemmeno avvocati. Trattandosi di un diritto che “veniva dal popolo” in quanto ne assecondava il più possibile le esigenze, tutti gli individui conoscevano abbastanza bene quali erano i loro diritti e i loro doveri. E quindi conoscevano anche le loro potenzialità di vittoria di una causa.


Tutto ciò fino a che gli ottomani non iniziano a voler “occidentalizzare” i propri domini, essenzialmente pressati dal desiderio e dall’esigenza di commerciare con le Potenze occidentali. Difatti, e potrei dire anche a ragione, gli investitori e i commercianti occidentali non volevano in alcun modo rischiare che i loro beni fossero sottoposti a un diritto non scritto (e che quindi nella nostra ottica, occidentale, poteva essere frutto del libero arbitrio del giudice del momento). Così, si pretese che perlomeno il diritto commerciale fosse redatto per iscritto.

Dal codice di commercio, però, gli ottomani si allargarono. Presi da una frenesia di occidentalizzazione (oltre che per via della pressione delle potenze occidentali), iniziarono a commissionare codici per ogni cosa, per il diritto civile, per quello penale, per le procedure e via dicendo. Il modello era quello dei codici napoleonici, volendo però inserirvi il diritto musulmano.

Ora, la scrittura ha il grandissimo pregio di rendere certo qualcosa, ma allo stesso tempo ha l’effetto di cristallizzarlo (rendendolo quindi immodificabile sul momento) e di irrigidirlo (impedendo la flessibilità che la norna non scritta poteva avere rispetto alle situazioni concrete).

Al momento della redazione dei codici, ci fu un filtro: alcune norme del diritto islamico tradizionale entravano nella nuova normativa, altre rimanevano fuori e non potevano più essere fatte valere. Fu così, ad esempio, che in molti codici i diritti garantiti alle donne nel diritto islamico tradizionale non esistevano più e la condizione della donna in molti Paesi musulmani anziché migliorare peggiorò drasticamente.

Con la redazione dei codici, anche i tribunali si resero necessari, e con essi gli avvocati, ma soprattutto le carceri. Difatti, se prima esistevano le celle per qualche prigioniero di guerra o per dissidenti interni, adesso bisognava pensare a creare il sistema carcerario per tutti coloro, individui “semplici”, che fossero stati condannati dai tribunali penali di turno. Tutto il sistema si rivoluzionava.

Ci sarebbero mille altre cose da raccontare, ma mi fermo qui. Quel che ho raccontato è più che sufficiente.


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