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Ma il Saladino, che farebbe il Saladino? Si “autodeterminerebbe”? - Parte Seconda (o Della nascita d



L’AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI

Dopo questa ricostruzione sembra piuttosto evidente che quello curdo è indubbiamente un popolo, non divenuto tale di recente ma tale da molti secoli in quanto entità storico-culturale che racchiude un insieme di soggetti legati tra loro dalla comunanza di razza, lingua, costumi, tradizioni e religione.

Tuttavia, ci sono alcuni MA.


Partiamo dal dire cos’è il principio di autodeterminazione dei popoli. Esso affonda le proprie radici nella rivoluzione francese e nella dichiarazione d’indipendenza americana, ma lo si ritrova “formalmente” enunciato solo ai primi del Novecento. Lo troviamo, curiosamente, sia sulla bocca del Presidente americano di allora, Woodrow Wilson, che sui proclami della neonata Unione Sovietica.

Difatti, il primo, indicando quale sarebbe stata la posizione americana durante la Conferenza di pace di Parigi al termine della I guerra mondiale, declinò, nel discorso fatto al Senato americano, i famosi “14 Punti”, che contemplavano l’indipendenza di quei popoli-Nazione che fino ad allora erano stati “assorbiti” dalle entità imperiali (vedi impero ottomano, impero austro-ungarico, impero tedesco). Il suo Segretario di Stato, Robert Lansing, era fortemente contrario a tale posizione, considerando il “principio di autodeterminazione dei popoli” una formula “carica di dinamite”. E infatti così fu: basta guardare le due grandi fasi di decolonizzazione dopo la II guerra mondiale.

Invece, l’Unione Sovietica affermava con forza questo principio non solo in quanto in opposizione al precedente impero zarista (visto anch’esso come soffocatore di popoli), ma anche e soprattutto per mettere in discussione tutto il diritto internazionale precedente. Secondo l’URSS, infatti, il diritto precedente era stato fatto da Stati coloniali o con impostazione coloniale, che non avevano tenuto in conto alcuno le istanze dei popoli che costituivano la maggior parte degli abitanti del globo e di conseguenza non poteva essere considerato diritto valido in quanto non rappresentativo della volontà della maggioranza.


Le prime applicazioni di tale principio, come accennato, hanno portato alla disgregazione degli Imperi; tuttavia, la sua più ampia diffusione si avrà dopo la seconda guerra mondiale. La Carta delle Nazioni Unite accoglierà formalmente il principio inserendolo sia nel Preambolo sia all’art. 1, tra le finalità perseguite dall’ONU. Ancora principio in nuce, si svilupperà sempre di più negli anni:

  • 1960: risoluzioni 1514 (XV) e 1541 (XV), adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riconoscono in maniera incondizionata il diritto all’autodeterminazione in capo a tutti i popoli sottoposti a dominio coloniale; secondo la formula stabilita dalla stessa risoluzione 1541, i popoli possono liberamente scegliere tra l’indipendenza, un accordo di libera associazione con la madrepatria ovvero l’integrazione nello Stato amministrante;

  • 1966: i due Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti sociali, economici e culturali, il cui comune art. 1 riconosce il diritto all’autodeterminazione politica, economica, sociale e culturale di tutti i popoli. Il secondo paragrafo dell’art. 1 prevede anche il diritto dei popoli a disporre liberamente delle proprie risorse naturali, nel rispetto degli obblighi di diritto internazionale e delle esigenze della cooperazione economica internazionale.

  • 1970: risoluzione 2625 (XXV) – l’APICE! - sui principi di diritto internazionale che regolano le relazioni amichevoli tra Stati, approvata dall’Assemblea generale, secondo cui il principio di autodeterminazione dei popoli si estende anche a quelle situazioni in cui una popolazione sia sottoposta ad un qualsiasi dominio straniero, non necessariamente di natura coloniale;

  • 1975: Capitolo VIII dell’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) riafferma il principio;

  • 1993: il paragrafo 2 della Dichiarazione conclusiva della Conferenza mondiale sui diritti umani tenutasi a Vienna (UN doc. A/CONF.157/23) riafferma il concetto.

Allo stato attuale, quindi, il principio di autodeterminazione dei popoli si può applicare a tre situazioni:

  1. Regime coloniale (ormai desueto)

  2. Regime militare straniero

  3. Negazione dell'accesso al governo per ragioni razziali (esterna o interna)

Mentre in passato le prime due ipotesi erano le più diffuse, attualmente potremmo dire che quella più probabile da trovare è la terza. Tuttavia, proprio in questo caso, vi ho precisato che si può avere autodeterminazione interna oppure esterna. Interna è sostanzialmente una forte autonomia del popolo-nazione all’interno di uno Stato (autonomia che ne tuteli le specificità: es. lingua, religione, tradizioni). Esterna equivale all’indipendenza, nuda e cruda. Se lo Stato “ospitante” garantisce in maniera efficace la prima (autodeterminazione interna), il popolo non può rivendicare quella esterna.

O meglio, non può rivendicare l’indipendenza in nome di questo principio.


Difatti, contrariamente a quello che Tv e giornali hanno provato a farvi credere durante i piuttosto recenti fatti di Crimea, un nuovo Stato non nasce solo ed esclusivamente in nome del principio di autodeterminazione dei popoli. Non scherziamo!


NASCITA DI UNO STATO

Un nuovo Stato ha tutti i presupposti per definirsi tale quando ricorrono – contemporaneamente – tre requisiti (c.d. elementi costitutivi):

  1. Sovranità a titolo originario (cioè governo autonomo e indipendente);

  2. Territorio su cui il governo di cui al punto 1 esercita il controllo;

  3. Popolo che si riferisce a questo territorio e su cui il governo del punto 1) esercita la sovranità.


Ovviamente vanno verificati:

a. l’indipendenza e l’autonomia (nel senso che il popolo risponda a quel governo e quel governo non risponda a un governo superiore: es. concreto, uno Stato federato che risponde allo Stato federale o un governo regionale che risponde allo Stato centrale);

b. l’effettività. Questo criterio è fondamentale: devono essere effettivi sia l’indipendenza (cioè il neonato governo deve essere di fatto indipendente, e non solo di forma, rispondendo magari al governo di altri Stati) sia il controllo (non si può proclamare di avere il controllo sul territorio e sulla popolazione di quel territorio e poi non averla effettivamente. Unica eccezione, in tal senso, contemplata dal diritto internazionale è per i governi in esilio, che ovviamente tale controllo non possono averlo ma vengono comunque riconosciuti come titolari della sovranità su quel territorio)


Quanto detto significa che, se sussistono questi tre requisiti, con o senza autodeterminazione dei popoli, un’entità può definirsi entità statale e nessuno può dirgli nulla. E può farlo attraverso diverse modalità:

  1. scissione (perdita di sovranità di uno Stato preesistente su una parte di territorio a favore di un altro Stato preesistente). Faccio es. per ipotesi: progressivamente l’Italia perde di fatto sovranità sul Trentino-Alto Adige che passa direttamente sotto la sovranità austriaca, senza passaggi intermedi;

  2. secessione (una parte di territorio dichiara l’indipendenza). Il Trentino-Alto Adige dice “ciao!” all’Italia e se ne sta per conto suo;

  3. smembramento (uno stato preesistente muore e si formano più nuovi stati): caso classico dell’URSS à URSS muore e nascono tanti nuovi Stati;

  4. fusione (due o più Stati precedenti si estinguono e formano un nuovo stato): es. può essere lo Yemen. Prima c’erano Yemen del Sud e Yemen del Nord, che si sono estinti per formare uno nuovo Stato: l’attuale Yemen;

  5. cessione territoriale (accordo tra Stato cedente e Stato cessionario). Tornando al Trentino-Alto Adige: l’Italia (Stato cedente) si accorda con l’Austria (Stato cessionario) per il passaggio di sovranità su tale regione.

Nel caso della Crimea, ad esempio, abbiamo avuto la secessione (punto 2) e poi l’annessione alla Federazione Russa.

Ora, in quell’occasione furono fatte diverse contestazioni:

  1. indipendenza valida solo se c’è autodeterminazione dei popoli;

  2. indipendenza non valida se fatta attraverso un referendum non previsto in Costituzione perché sarebbe una violazione dell’integrità territoriale dello Stato;

  3. indipendenza non valida se gli altri Stati non la riconoscono.


Già in parte vi ho risposto alla prima obiezione. Vi aggiungo solo che anche la Corte internazionale di Giustizia ha affermato ciò, nel suo Parere del 22 luglio 2010 (sulla dichiarazione di indipendenza del Kossovo). Lì la Corte sottolinea ed evidenza che il principio di autodeterminazione dei popoli NON è l’unica ipotesi legittima di indipendenza.


Obiezione 2. Scusate, non riesco ad evitare un sorriso. Sapete dirmi, realisticamente, quale Stato unitario farebbe la stupidaggine di prevedere all’interno della propria Costituzione la possibilità di un referendum che ne consenta la disgregazione in tutto o in parte?

Il referendum, per il diritto internazionale, è una modalità come le altre, è l’espressione di una volontà, ma soprattutto nel diritto internazionale il diritto interno non rileva!

Cioè, in una Costituzione può esserci scritto quello che si vuole, ma non è la Costituzione a prevalere sul diritto internazionale. Semmai è il contrario.

Nel tempo, le disposizioni costituzionali sui diritti e le libertà fondamentali sono divenute sostanzialmente intangibili, ma non perché previste in Costituzione, bensì perché è il diritto internazionale a considerarle intangibili. Non so se sono stata molto chiara su questo punto.


L’unica e sola norma di diritto interno che rileva nel diritto internazionale è quella che fissa chi è competente a firmare un Trattato in nome e per conto di uno Stato (nel senso, da noi il Ministro degli Esteri per esempio è considerato plenipotenziario, quindi può impegnare uno Stato con la sua firma. Questo lo decide una norma interna italiana. Se vado io a siglare un accordo con la Francia, dicendo loro che ho le competenze e blablabla, ammesso che i miei interlocutori ci credano e io firmi un accordo col governo francese, quell’accordo non sarà valido per il diritto internazionale perché palesemente non sono io, per il diritto interno italiano, la persona competente a firmare quell’accordo e a impegnare lo Stato italiano). Questo è l’unico e solo caso.


Ora, se facciamo un rapido excursus negli ultimi venti anni vedremo che i nuovi Stati riconosciuti sono Stati che:

a. non si sono nemmeno disturbati a fare un referendum (vedi il Kossovo, che ha dichiarato l’indipendenza con un semplice atto parlamentare, e di certo la Costituzione serba non prevedeva questa possibilità!); oppure

b. hanno fatto referendum che non erano previsti nella Costituzione dello Stato da cui dichiaravano l’indipendenza (es. Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina. Secondo voi la Costituzione della Repubblica Federale di Jugoslavia prevedeva il referendum???).

E così facendo non si viola nessuna integrità statale! Anche qui, la Corte internazionale di giustizia, sempre nel parere che vi ho citato su, si esprime chiaramente: il divieto di violazione dell’integrità territoriale di uno Stato si rivolge a un altro Stato (relazione inter – statale).

Mi spiego con un esempio: se l’Italia (Stato) va e si prende la Corsica sta violando l’integrità territoriale della Francia (altro Stato). Ma se è la Corsica (entità non statale, ma intrastatale) a dichiarare l’indipendenza, prendendosi una parte del territorio francese, non sta violando un bel nulla perché stiamo in una relazione INTRA-statale e non inter-statale. D’altronde, se considerate che ormai quasi tutti i territori del globo sono occupati da Stati, la possibilità di nascita di nuovi Stati sarebbe praticamente azzerata, se fosse vera l’obiezione 2.

In genere, l’indipendenza è un atto unilaterale. Non è richiesto l’accordo (sebbene auspicabile) dello Stato da cui si dichiara l’indipendenza.


Andiamo avanti, terza obiezione. Il riconoscimento. Scusate, un’altra risata.

Partiamo da un presupposto: uno dei principi fondamentali che regolano le relazioni tra Stati è l’EGUAGLIANZA SOVRANA TRA GLI STATI. Ora, mi dite voi che eguaglianza ci sarebbe tra me, nuovo Staterello, e gli altri già esistenti se fossero loro a decidere se io esisto o meno?

Proprio per questo motivo il riconoscimento degli altri non ha valore costitutivo (cioè, non è il riconoscimento loro a costituirmi Stato). Il riconoscimento ha invece tre effetti:

  1. politico (ad es. nonostante l’ondata generale di riconoscimento, il Kossovo non è riconosciuto dalla Spagna, dalla Grecia, da Cipro, per via del fatto che costituirebbe un precedente per la questione basca, macedone e di Cipro Nord);

  2. giuridico, nel senso DICHIARATIVO: cioè, io Stato preesistente dichiaro che effettivamente tu nuovo Stato hai quei tre requisiti di cui abbiamo parlato su (governo, territorio, popolo);

  3. estoppel, che significa che una volta che io ho riconosciuto uno Stato non posso più disconoscerlo.

Questo vuol dire che, con o senza riconoscimento, se uno Stato possiede i tre requisiti esso esiste. Punto.


Tuttavia, il non riconoscimento ha ovviamente delle conseguenze, sulle norme applicabili. Infatti, tra lo Stato appena nato e gli Stati che non lo hanno riconosciuto si potrà applicare solo il diritto internazionale basilare, cioè quell’insieme di norme posto a garanzia dell’indipendenza dello Stato.

Al contempo, lo Stato non riconosciuto non potrà pretendere che gli Stati che non lo hanno riconosciuto facciano accordi con lui. A questo punto vi segnalo il paradosso. Secondo voi, Taiwan è uno Stato?

Io direi proprio di sì. Eppure per la maggior parte degli Stati nel mondo Taiwan non lo è. Pensate che poco più di venti Stati hanno riconosciuto Taiwan, e uno dei suoi principali partner commerciali, gli USA, non lo hanno riconosciuto (spiegazione storica: fino al 1971 Taiwan sedeva al Consiglio di sicurezza ONU come membro permanente, posto ora occupato dalla Cina. A quella data, gli USA in primis – vedi politica “triangolare” di Kissinger – vollero coinvolgere la Cina di Mao Zedong nel consesso internazionale e, per fare ciò, dovettero defenestrare Taiwan dal Consiglio di sicurezza e negargli il riconoscimento). Tuttora, Taiwan non è riconosciuto ma commercia con tutti che è una bellezza!

Questa è la dimostrazione lampante di quanto il riconoscimento non c’entri nulla con l’esistenza di uno Stato!


Allo stesso tempo il riconoscimento è altamente dannoso quando è prematuro, cioè quando avviene prima che i tre requisiti costitutivi si siano realizzati nella loro interezza. Esempi più recenti: il riconoscimento di Croazia e Bosnia-Erzegovina, che quando furono riconosciute non avevano il controllo di nemmeno un terzo del territorio che proclamavano essere loro. Le successive commissioni internazionali hanno esplicitamente affermato che quel riconoscimento da parte degli Stati acuì l’acrimonia del conflitto e, soprattutto, fu un vero e proprio atto di ingerenza negli affari interni di un altro Stato (la Repubblica Federativa di Jugoslavia).


Ultima precisazione: nel tempo gli Stati si sono accordati per riconoscere gli Stati non solo sulla base dei requisiti costitutivi che vi ho elencato, ma anche di ulteriori criteri: per esempio non riconosceranno uno Stato che viola la Carta ONU, o l’atto finale Helsinki, o che sia nato in violazione diritti umani o in violazione diritti delle minoranze, o nato in seguito ad atti di aggressione (ma su questo vi ho spiegato in un precedente articolo quanto sia complesso stabilire cosa sia un atto di aggressione).


A questo punto, qual è la differenza sostanziale tra i casi di un’indipendenza “semplice” e di una dichiarata sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli?

Questa differenza sta negli obblighi e diritti in capo alle parti:

  • indipendenza semplice: gli Stati terzi devono assolutamente astenersi dall’aiutare i ribelli e, se qualcuno devono proprio aiutare, devono aiutare lo Stato centrale. Se aiutano i ribelli, stanno violando il diritto internazionale;

  • Indipendenza con autodeterminazione: gli Stati terzi non devono in alcun modo aiutare lo Stato centrale (definibile come “oppressore”) e anzi sarebbe cosa buona e giusta che aiutassero il popolo che si autodetermina.

Ovviamente le lotte per l’indipendenza ammettono l’uso della forza. Sarebbe quasi irrealistico, seppur bello a pensarsi, che ci possa essere un’indipendenza per via pacifica. Ma non tutti gli usi della forza sono ammessi: per esempio, in nome dell’indipendenza non puoi commettere atti terroristici. Nel momento in cui compi atti di terrorismo, tu, popolo che ti autodetermini rischi di perdere la qualifica di “legittimo combattente” e quindi anche il “diritto” all’aiuto da parte di altri Stati.

Vedi ad esempio il caso palestinese: i gruppi che agiscono per l’autodeterminazione hanno tutto il “diritto” all’aiuto esterno fintantoché non utilizzano il terrorismo come mezzo di lotta. Se mi metti in opera un kamikaze, stai fuori dalla cornice legittima.


Tornando al Kurdistan, dicevo, indubbiamente siamo davanti a un popolo. Al contempo, però, tranne il caso del PKK, i rappresentanti curdi chiedono l’autonomia all’interno dello Stato in cui si trovano (quindi quella che abbiamo chiamato “autodeterminazione interna"). Solo il PKK turco chiede l’indipendenza (autodeterminazione esterna), ma spesso e volentieri lo fa attraverso atti terroristici, perdendo quindi qualunque diritto all’aiuto esterno.

Concretamente, sembra che solo i curdi iracheni abbiano effettivamente l’autonomia richiesta; quelli siriani la stanno conquistando di fatto nel contesto della lotta anti-Assad e anti-IS; quelli iraniani sembrano ancora piuttosto lontani dalla realizzazione delle loro istanze; quelli turchi piano piano si stanno facendo rappresentare in Parlamento sebbene ancora non sembra abbiano ottenuto l’autonomia che desiderano.


Tuttavia, l’impressione che mi son fatta raccontandovi questa storia è che, in virtù delle risorse naturali custodite nel suolo curdo, non solo i Paesi direttamente interessati, ma soprattutto gli Stati “terzi” abbiano tutto l’interesse a mantenere smembrato il Grande Kurdistan.


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