ALLA RICERCA DELLA COSTITUZIONE PERFETTA (o Come solo la Governabilità di un Paese può salvarci dall
Ho sentito l’esigenza di preparare per voi questo post, lungo, che non vuole essere una riproposizione di tutte le cose che avrete sentito e risentito a lungo in questi mesi - asfissianti! – di campagna referendaria. Vi voglio condurre su un piano di più ampio respiro, indurre una riflessione che non vi servirà solo per il referendum di domani ma che vi faccia avere uno sguardo su quanto ci dice il mondo e vi faccia percepire come il dibattito politico in Italia sia a livelli di provincialismo davvero preoccupante! Affidare la formazione della nostra opinione a questi soggetti (di tutti i fronti) significa davvero consegnarci inermi nelle mani del macellaio; sareste molto più vicino alla realtà aprendo le pagine di wikipedia e facendo voi una vostra analisi. E con questa affermazione, a dir poco rattristante, ho detto tutto sulla considerazione che ho dei nostri politici.
Comunque, quello di domani è un referendum importante, costituzionale. Andate a votare.
La parola Costituzione dovrebbe essere chiara a molti, ma spesso è sottovalutata. Avete mai pensato al fatto che si dice delle persone che sono di “sana e robusta costituzione”? Stiamo parlando dell’essenza, dello scheletro di un essere, sia esso persona fisica (un individuo) o persona giuridica (come lo Stato).
La Costituzione è quindi l’ossatura del nostro Stato, quel qualcosa sulla base del quale si sviluppa la vita di un Paese e che lo rende più o meno resistente a superare i malanni, a sviluppare gli anticorpi e altre cose simili. Quindi, non esiste una Costituzione giusta in assoluto ma esiste una Costituzione giusta per ogni Stato. Una Costituzione che si cuce su misura per quello Stato, sulla base della sua Storia, della sua genetica, della sua società. Capirete meglio cosa intendo nel corso della lettura, in cui farò anche un po’ di comparazioni tra i diversi sistemi costituzionali (i principali si intende!), giacché in questa campagna referendaria devo dire che di baggianate ne ho sentite non poche.
L’eliminazione del bicameralismo perfetto (che in molti manuali di diritto costituzionale è addirittura chiamato “più che perfetto” per come è concepito e soprattutto attuato!), così come fatta dalla riforma, è davvero antidemocratico? La revisione della ripartizione delle competenze Stato-Regioni è davvero disfunzionale e confusionaria?
A ciò, si aggiunge un terzo punto, ineludibile giacché tutti i commentatori in questi mesi estenuanti di campagna referendaria hanno più volte puntato il dito sulla legge elettorale e la sua diabolica combinazione con la riforma costituzionale.
Prima di cominciare, tuttavia, mi preme dire una cosa: son tredici anni che leggo Costituzioni e mi sento di affermare, senza timore di smentita, che questa riforma (qui trovate il testo) non è affatto scritta male. Possono non piacere i contenuti, ed è una cosa più che legittima, ma il testo è scritto bene.
Se un giornalista (Travaglio in primis) non è in grado di capirlo è probabilmente per vari motivi: il primo è che la Costituzione è prima di ogni cosa un testo giuridico, quindi non ci si può aspettare che sia scritta in stile giornalistico, e ciononostante – eccezion fatta per alcuni commi – il testo della riforma è comunque scritto in maniera sufficientemente chiara per essere comprensibile al grande pubblico; in secondo luogo, onestamente l’Italiano che vedo adoperato in molti articoli di giornale fa venire la pelle d’oca e fa rizzare i capelli, quindi temo che prima di tutto dovremmo intenderci su cosa sia l’Italiano.
L’altra cosa fondamentale è che sia il fronte del Sì che quello del No hanno fatto qualcosa di davvero immorale politicizzando il referendum. Non stiamo parlando di bruscolini ma di quella che è l’ossatura e l’anima del nostro Paese: ricondurlo a un semplice pro-contro Renzi esattamente come nel 2006 era stato un pro-contro Berlusconi è davvero immorale. Lo ripeto, IMMORALE. Poi non piangiamo miseria se l’Italia non va avanti: noi abbiamo una politica distruttiva e non costruttiva, sia a livello di eletti sia a livello di elettori. Non siamo in grado di fare una sintesi degli interessi diversi e molteplici della nostra società; sappiamo solo creare scontro, o vince uno o vince l’altro. Il bilanciamento degli interessi della nostra società non è possibile, perché il bilanciamento viene male interpretato, non da tutti ma da molti (troppi!), come un compromesso che come tale non s’ha da fare.
Eppure la coesistenza richiede mediazione! Gli interessi del ricco non potranno mai coincidere con quelli del povero, gli interessi di un calciatore non potranno mai coincidere con quelli di un infermiere o di un operaio. E non si può pretendere che vinca sempre totalmente un interesse a discapito dell’altro: questo non sarebbe pluralismo, ma sarebbe l’imposizione delle ragioni di uno sulle ragioni dell’altro. Finché non finisce questa modalità antagonista di vivere e gestire la cosa pubblica, non ci saranno riforme, costituzionali, strutturali o di qualunque altro tipo siano, che tengano e che possano salvarci. Siatene consapevoli.
Costituzione: ma sappiamo davvero cosa significa?
L’idea di Costituzione in senso moderno, cioè quale documento normativo, nasce negli Stati Uniti dove, nel 1787, viene approvata la Costituzione federale che costituisce il primo esempio di carta fondamentale che non è modificabile attraverso la legge ordinaria (non essendo così facilmente modificabile, si parla quindi di Costituzione rigida). Oltre ai classici diritti di libertà (personale, di domicilio, ecc.), sono riconosciuti per la prima volta tre tipi di diritti che faranno la loro comparsa in Europa soltanto molto tempo dopo: la libertà di culto, il diritto di riunione e di associazione (riconosciuto in Europa solo nel XX secolo), i diritti dell’imputato nel processo.
In Europa invece la Costituzione è sempre tradizionalmente stata frutto di un patto tra monarca e parlamento (quando invece non si trattava di una Costituzione addirittura ottraiata, cioè “gentilmente concessa” dal sovrano, come fu lo Statuto albertino del 1848). Ciò significava che non vi era posto per diritti costituzionali, ossia diritti da considerarsi superiori ad altri e quindi non modificabili per legge ordinaria. Questo tipo di costituzioni si definivano “flessibili”, vale a dire che per essere modificate non richiedevano una procedura (più complessa) di tipo costituzionale bensì era sufficiente la legge ordinaria. La loro flessibilità ne evidenziava anche la sostanziale debolezza a livello di tutela dei diritti degli individui, giacché bastava un voto parlamentare per modificare tali diritti. Invece la Costituzione americana era la Carta dei Diritti e la Carta dei Diritti era la Costituzione, come affermato nel paper n.84 del Federalist di Alexander Hamilton: questa concezione sarà successivamente alla base del costituzionalismo tedesco, ma solo nel secondo dopoguerra.
Quindi, la Costituzione è fondamentale e da difendere fino alla morte nella parte in cui sancisce i diritti e principi fondamentali. È per questo che le Costituzioni moderne sono nate, per diventare la Carta dei Diritti. Tuttavia, dal momento che esse costituiscono anche l’ossatura di uno Stato, esse contengono sempre una seconda parte dedicata all’organizzazione dello Stato: ossia la ripartizione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario tra le diverse istituzioni che compongono appunto lo Stato. L’organizzazione dello Stato dipende dalle mutazioni ed evoluzioni storiche, culturali, sociali e politiche di un Paese: col tempo ci si accorge che qualcosa non funziona, che funziona male o che è diventata desueta. E allora la si cambia. Invece i diritti e i principi non si possono toccare. Quando si parla di Costituzione più bella del mondo, si è sempre parlato della I parte, dei diritti! Sulla seconda parte, invece, se qualcuno avesse detto che era la più bella del mondo, era qualcuno che aveva seri problemi psicologici: la II parte della nostra Costituzione non è mai piaciuta a nessuno, inclusi quelli che l’hanno redatta. Scritta sicuramente bene, perché la nostra Costituzione è scritta bene, ma con risultati pratici alquanto discutibili. I Costituenti non volevano la Corte costituzionale e nonostante fosse stata alla fine prevista in Costituzione essa iniziò ad esistere solo alla fine del 1955. Allo stesso tempo, quando si scrive una Costituzione di uno Stato appena nato è davvero difficile prevedere tutti i risvolti, a un certo punto bisogna ragionare per tentativi e dirsi: “vediamo come va, se non funziona poi la si cambia!”
Se così non fosse, allora nelle Costituzioni non ci dovrebbe essere nessun articolo che parla di revisione costituzionale e che la consente. Per tanto tempo nelle nostre TV ho sentito la denuncia di attentato alla Costituzione solo perché qualcuno aveva la balzana idea di volerla cambiare! Per fortuna, l’intoccabilità della Costituzione è passata in cavalleria. Cambiarla si può e, a volte, addirittura si deve! Con cautela, accortezza, delicatezza, ma si deve!
Detto ciò, ho sentito parlare in giro di pericoli di deriva autoritaria. Primo punto di confusione: i nostri politici e giornalisti non hanno in testa nemmeno lontanamente la differenza tra forma di Stato, forma di governo e sistema elettorale. Cerco di illustrarvela nel modo più semplice possibile, nei limiti della complessità della cosa.
Forma di stato
Con l’espressione “forma di stato” si intende il rapporto che corre tra le autorità dotate di potestà d’imperio e la società civile, nonché l’insieme dei principi e dei valori cui lo Stato ispira la sua azione. Esempi di forma di stato sono:
lo Stato assoluto, quello tipico del ‘500-‘600, in cui il Re era a legibus solutus (svincolato da qualunque legge) e accentrava in sé il potere legislativo ed esecutivo, mentre quello giudiziario era esercitato da giudici che comunque erano dal Re nominati. Insomma, il Re Sole per intenderci;
lo Stato liberale, quello che nasce alla fine del Settecento proprio per ribellione contro lo stato assoluto. In questo caso, la classe borghese (per difendere i propri interessi economici, prevalentemente) inizia a piantare i semi prima della Rivoluzione francese e poi di tutti gli altri piccoli grandi cambiamenti che porteranno a un bilanciamento dei poteri tra Re e parlamento, e soprattutto a una condivisione nell’esercizio di tali poteri.
In Inghilterra la cosa era avvenuta un po’ prima, come vi ho raccontato nell’articolo sulla Brexit, quando ci fu la rivoluzione capeggiata da Cromwell e la decapitazione del Re inglese che aveva provato a diventare “monarca assoluto” ma che fu bloccato dal parlamento.
Sebbene non si potesse ancora parlare di democrazia piena, è con lo Stato liberale che si affermano per la prima volta importanti concetti che fondano la nostra democrazia moderna: d’altronde è sempre lo Stato liberale quello che vede la nascita degli Stati Uniti d’America. Una società di emigranti che si erano volutamente avventurati nel nuovo continente per fuggire a qualche regime oppressivo (i puritani dal dispotismo dell’inglese Carlo I, le sette pietiste tedesche dai soprusi dei feudatari, gli ugonotti francesi dalla repressione religiosa) e al contempo di contadini, artigiani, operai che cercavano nuove opportunità economiche a seguito delle difficoltà che incontravano in patria. È nello Stato liberale americano che nasce il bellissimo preambolo alla Dichiarazione d’indipendenza: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini siano stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, fra i quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.
Quindi, lo stato liberale ha come tratti essenziali:
una finalità politico istituzionale garantista, in quanto lo Stato viene considerato uno strumento per la tutela delle libertà e dei diritti degli individui (diritto di proprietà in primis);
concezione dello Stato minimo, ossia uno Stato che deve limitarsi a fare quel che serve per garantire (da punto 1) le libertà e i diritti degli individui astenendosi da tutto il resto, soprattutto dall’intervenire nella sfera economica;
principio della libertà individuale;
separazione dei poteri (quindi non più tutti attribuiti al re);
principio di legalità, che consente di affermare il c.d. stato di diritto, ossia il fatto che ogni limitazione della sfera di libertà riconosciuta a ciascun individuo può avvenire solamente per mezzo della legge;
il principio rappresentativo: nei parlamenti medioevali i parlamentari rappresentavano i corpi (ad es. nobiltà, clero, determinate città, ecc.); nello Stato liberale invece i parlamentari rappresentano la Nazione, il popolo, insomma l’interesse generale e non dei corpi di appartenenza. È qui che nasce il DIVIETO DI VINCOLO DI MANDATO! Se si imponesse il vincolo di mandato, vorrebbe dire che la persona eletta quando va in parlamento non deve fare l’interesse generale della nazione bensì l’interesse del singolo o di quel gruppo di singoli che lo ha eletto. Quale delle due opzioni vi sembra, ragionandoci su, la più democratica?
Al contempo, parlando della situazione italiana, il divieto di vincolo di mandato fu inserito proprio perché si usciva da uno Stato totalitario. Vi faccio l’esempio pratico: ci sono le elezioni e il partito o la coalizione con a capo Tizio vince. A un certo punto Tizio ha istinti dittatoriali sempre più accentuati. L’unico modo per farlo, democraticamente, cadere è che egli vada in minoranza in Parlamento e quindi quest'ultimo non gli voti più la fiducia. Se ci fosse vincolo di mandato, qualunque deputato eletto nel partito di Tizio non potrebbe mai votare contro Tizio e togliergli la fiducia perché il deputato in questione è stato eletto per appoggiare Tizio non per farlo cadere.
lo Stato di democrazia pluralista (quello in cui ci troviamo noi adesso), che si afferma mano a mano che lo Stato da monoclasse (prevalentemente classe borghese) diventa pluriclasse e quindi si avverte l’esigenza di rappresentanza di più gruppi, di più interessi, di più idee, di più valori che possono confrontarsi nella società ed esprimere la loro voce nei Parlamenti. Il tratto simbolo di questo tipo di democrazia è il suffragio universale, che comporta non solo un ampliamento quantitativo della base elettorale ma anche una trasformazione qualitativa:
si affermano i partiti di massa che organizzano la partecipazione politica di milioni di elettori. Pensiamo ad esempio alla nascita, a fine Ottocento, del partito laburista (1893) in Inghilterra, che ora diamo per scontato come antagonista dei conservatori nelle elezioni inglesi, ma così non era prima. Difatti, fino al I dopoguerra, in Inghilterra i due partiti principali erano i conservatori e i liberali, con i laburisti che facevano da terzo partito che non arrivava mai a concludere efficacemente le elezioni. Questo finché non raggiunsero una forza tale da soppiantare i liberali, che tuttora resistono ma sono un partito di minoranza. Sì, anche se pensiamo che il sistema inglese sia bipartitico, non è esattamente così. Ma anche in Italia, a fine Ottocento, nasce il Partito socialista (1892) che solo dopo la Rivoluzione russa (1917) vedrà la scissione in partito comunista e partito socialista (1921). Nel 1919 i cattolici venivano riuniti da don Luigi Sturzo sotto l’ala del Partito popolare.
gli organi elettivi, Parlamento in primis, diventano luoghi di confronto e di scontro di interessi eterogenei;
oltre ai diritti di libertà tipici dello Stato liberale, vengono garantiti anche quelli sociali per l’integrazione dei gruppi più svantaggiati.
lo Stato totalitario, che è una deriva dello Stato pluralista che si ha quando le tante voci portatrici di interessi e valori diversi non riescono a trovare una giusta ed equilibrata sintesi. STIAMO ATTENTI A QUESTO PUNTO!
Per intenderci, la prima Costituzione di uno Stato pluralista fu la c.d. Costituzione di Weimar, in Germania, che nel 1919 alla fine della I guerra mondiale passava dall’impero (ricorderete il Kaiser Guglielmo II) alla Repubblica. Una Costituzione che per la prima volta introduceva in un testo normativo da considerarsi superiore alla legge ordinaria valori per noi considerati fondamentali (prevedeva addirittura la tutela della maternità – che per quell’epoca era una novità, diciamocelo! – il sistema previdenziale, la tutela della salute), ma non prevedeva nessun sindacato di costituzionalità (cioè non c’era nessun organismo, assimilabile alla nostra Corte costituzionale, che vigilasse sul rispetto della Costituzione da parte degli altri organi dello Stato).
Tutto va più o meno bene in questa Germania post guerra fin quando nel 1929 la crisi economica non giunge all’apice, crisi che aveva fatto crollare Wall Street dall’altro lato del mondo, e la maggioranza parlamentare che era stata sino ad allora costituita dal partito social-democratico, da quello cattolico e da quello democratico liberale (c.d. coalizione di Weimar) non regge più. Si avvia una multi-frammentazione partitica, tanti piccoli partiti che da soli non riescono a fare nulla ma al contempo non riescono ad allearsi fra loro: non si riesce più ad avere una maggioranza di governo.
La stabilità del Paese è messa all’angolo. Si cerca di riparare creando i c.d. “governi del presidente”, che cioè non avendo una maggioranza in parlamento si basavano esclusivamente sull’appoggio del Capo dello Stato. Così si affermò pian pianino il partito nazionalsocialista guidato da Hitler: alle elezioni degli anni ’20 aveva raggiunto circa il 3% dei consensi, poi alle elezioni del 1930 (sull’ondata emotiva della crisi economica che vi ho accennato prima) ottenne il 18,3% dei consensi; infine alle elezioni del 1932 spiccarono i due partiti anti-sistema, da un lato i comunisti con il 16,9% dei voti e dall’altro lato i nazionalsocialisti con il 33,1%. Fu così che il Capo dello Stato di allora nominò Hitler cancelliere e questi ottenne l’approvazione di una legge che gli conferiva pieni poteri, costringendo i partiti a sciogliersi. Nacque lo Stato totalitario.
Senza andare qui nel dettaglio, l’altro Stato totalitario si formò in contemporanea, più o meno, proprio in Italia con l’avvento del fascismo. La piaga economica che affliggeva la Germania era di gran lunga più grave di quella sofferta dall’Italia (come vi ho raccontato altre volte la Germania combatteva con l’iperinflazione, che aveva fatto precipitare il potere d’acquisto dei cittadini tedeschi; in più la Germania aveva sul groppone il pagamento delle riparazioni di guerra e dei debiti di guerra cui si assommavano – giacché non era in grado di pagarli subito ma andavano dilazionati su più anni - gli interessi sui debiti stessi nonché sui prestiti fatti – dalla JP Morgan – per aiutare lo Stato tedesco a pagare i debiti di guerra; invece in Italia, Mussolini aveva tenuto il punto, aveva fissato la famosa “quota 90” per la Lira, insomma la situazione era meno disastrosa). Ciononostante, il motore primo dell’affermarsi del partito fascista fu anche qui il multipartitismo eccessivo: quando i partiti sono eccessivamente troppi il rischio concreto e assicurato è la non governabilità, la non governabilità a sua volta genera la deriva autoritaria, si tende a cercare qualcuno che riesca a prendere il potere ma soprattutto a decidere. Questa non è una giustificazione del totalitarismo: è la descrizione storica di quel che è stato nonché la sua analisi, molto breve, sociologica. Ne deriva che quando ci troviamo, per esempio, di fronte a un multipartitismo esasperato come è avvenuto in anni non troppo lontani, l’optare per il maggioritario anziché per il proporzionale, come sistema elettorale, non è una scelta antidemocratica ma semmai è una scelta che preserva la democrazia, perché l’ingovernabilità di un Paese protratta troppo a lungo genera il seme del totalitarismo.
lo Stato socialista, per antonomasia quello realizzatosi nell’ex Unione Sovietica, in cui si consacra l’accentramento del potere nel partito-Stato. Lo Stato e la Costituzione altro non erano che appendici e strumenti del partito e del suo programma. Quando si ammetteva il multipartitismo (ad es. Polonia, Bulgaria, Cecoslovacchia) non si ammettevano comunque diversità ideologiche e programmatiche che si distanziassero dalla dottrina marxista-leninista. Secondo il principio dell’unitarietà del potere statale, quest’ultimo era concepito come espressione della sovranità del popolo che era a sua volta fatto coincidere con la classe operaia (tranne che in Cina, dove si guardava per lo più alla classe contadina). La sovranità del popolo doveva manifestarsi in maniera diretta oppure tramite deleghe alle assemblee rappresentative, considerate come organi superiori del potere statale. Da questo principio derivava la responsabilità degli eletti nei confronti della base elettorale, la disciplina di patito e la subordinazione della minoranza alle decisioni della maggioranza, la assoluta vincolatività delle decisioni degli organi superiori nei confronti di quelli inferiori.
Forma di governo
Per “forma di governo” si intendono i modi in cui il potere è distribuito tra gli organi principali di uno Stato-apparato e l’insieme dei rapporti che intercorrono tra essi. Nell’ambito di ciascuna forma di stato vi sono diverse forme di governo possibili: ad esempio, nell’ambito dello Stato di democrazia pluralista possiamo avere la forma di governo parlamentare, quella neoparlamentare, quella presidenziale, quella direttoriale, quella semipresidenziale.
Ora, l’impressione che ho avuto leggendo e ascoltando commenti e opinioni qua e là tra politici, giornalisti, opinionisti ma anche tra la c.d. “gente comune” è che si possa parlare di vera democrazia solo quando ci troviamo all’interno di uno Stato di democrazia pluralista con forma di governo parlamentare. Praticamente solo uno dei tanti modelli possibili, invece, nella Storia del mondo, Storia contemporanea inclusa. Spero vi rendiate conto voi da soli che, sebbene per esempio non si possa parlare di democrazia nel caso dello Stato assoluto, non si possa ritenere che ci sia democrazia solo nel caso di Stato pluralista parlamentare. Magari anche quello pluralista presidenziale o semipresidenziale vanno benissimo. Oppure la Svizzera, dove la democrazia diretta partecipativa è un must, dove il meccanismo del referendum è sacro e sta ovunque come fosse prezzemolo, beh, in Svizzera la forma di governo non è parlamentare, è direttoriale. Ve la sentite di affermare che solo per questo motivo lì non si possa parlare di democrazia???
È uno dei più grossi equivoci della scienza delle costituzioni quello di associare il sistema parlamentare alla democrazia, come reciprocamente implicati e condizionati.
Ora, di governi parlamentari in Europa ne abbiamo tanti: ad esempio, oltre all’Italia, vi sono la Germania, l’Inghilterra, la Spagna. Quindi due Repubbliche e due monarchie. Al loro interno, qual è il peso del parlamento? Uguale? Diverso? Come fanno a coesistere?
Al contempo, si può dire che l’Inghilterra, pur essendo monarchica, sia più democratica della Francia per il semplice fatto di avere una forma di governo parlamentare? La Francia è meno democratica solo perché ha il semipresidenzialismo? E l’Inghilterra, pur avendo la monarchia (che di sicuro non è un istituto tipico della democrazia), è più democratica della Francia solo perché in Inghilterra vige il sistema elettorale maggioritario puro mentre in Francia c’è il ballottaggio al secondo turno?
Ovviamente le mie sono tutte domande retoriche per farvi ragionare sul fatto che non esiste la combinazione forma di stato + forma di governo + sistema elettorale democratica per eccellenza. Ogni modello è come una formula chimica in cui, per ogni Paese, i tre elementi che ho menzionato si mescolano nella maniera più adatta possibile alla società, alla cultura e alla storia del Paese in questione.
Ne consegue che, così come è assolutamente sbagliato pretendere che i modelli stranieri possano essere importati e fatti calzare a pennello alle nostre istituzioni in una smodata tendenza esterofila, allo stesso tempo non si può affermare che provare a cambiare quello a cui siamo abituati è un attentato alla democrazia.
Democrazia è una parola davvero complessa; tenerla sempre sulla bocca senza conoscerne il significato in tutte le sue sfumature la priva davvero di valore. Siamo noi stessi i primi a svalutare il concetto quando la utilizziamo in maniera inidonea. Sempre nell’articolo sulla Brexit vi avevo già fatto una “disquisizione” sul significato di democrazia… e già quella, per quanto lunga, è solo una piccola parte del tutto. Ragioniamo prima di parlare e interroghiamoci sul vero significato delle parole.
Ecco, forse la vera carenza della riforma di adesso, così come di quelle effettuate o tentate degli ultimi decenni, è proprio la carenza di un pensiero “filosofico” alle spalle. Come vi racconterò, le grandi Costituzioni esistenti hanno tutti dei pensieri filosofici alle spalle. Ma ormai noi siamo nella politica del fare, giusto? A che serve pensare?
Comunque, per meglio capire il bicameralismo, dobbiamo muoverci su un piano ancora ulteriore in modo da capire per quale motivo i Parlamenti nel mondo sono fatti in un certo modo piuttosto che in un altro. Il piano ulteriore è: federalismo sì – federalismo no?!