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Marò: ma li stiamo davvero difendendo?


Per la prima volta non so da dove cominciare: lo sdegno ha fatto caos nelle mie idee ben organizzate. Tuttavia i temi che voglio affrontare sono tre:

a) La sfacciataggine della Corte Suprema indiana;

b) La dabbenaggine del governo italiano (rectius, i governi italiani) di cui forse ho trovato il motivo;

c) L’organizzazione della difesa italiana davanti alla Corte Permanente di Arbitrato.


Punto a. Chi mi segue dall’inizio, ricorderà che il primo articolo sui marò era dedicato alla decisione del Tribunale del Mare con sede ad Amburgo, del 24 agosto scorso, nella quale i giudici internazionali imposero il “congelamento” dello status quo. Sia l’India che l’Italia avrebbero dovuto sospendere qualunque procedimento in corso e, parimenti, non avrebbero dovuto (in via precauzionale) compiere alcuna azione che potesse pregiudicare gli interessi in gioco nel corso della causa.

Questo è il motivo per il quale una qualunque richiesta italiana sul rientro di Girone, fatta ad una qualunque autorità indiana, giudiziaria o governativa che fosse, cadrebbe nel vuoto e dimostrerebbe completo dileggio nei confronti della decisione presa dal Tribunale del Mare.

Allo stesso tempo, nessuna decisione dell’India sul permesso concesso a Latorre può essere presa. Se l’imposizione dall’alto è mantenere lo status quo, mi pare evidente – innanzitutto – che una qualunque decisione d’imperio indiana su un eventuale rientro del nostro fuciliere in India sarebbe presa in violazione della decisione di Amburgo. Quindi, quella della Corte Suprema è una scelta obbligata, non ci sta certo facendo un’opera di magnanimità. Al contempo, come vi ho precisato, il Tribunale internazionale ha stabilito il CONGELAMENTO delle procedure. Da dove viene fuori all’India di continuare a convocare udienze come se nulla fosse?


Punto b. Il governo italiano mi ha sempre sorpresa e delusa nella conduzione di questo affaire. A me, piccola giurista, appariva lampante la sussistenza delle nostre ragioni e quasi immorale il comportamento indiano. Eppure, non riuscivamo a reagire. Il primo pensiero che mi ha attraversato la testa è “non contiamo davvero nulla, se non riusciamo a imporci nemmeno quando abbiamo dalla nostra le carte scritte e anche le regole non scritte del diritto internazionale!

Tuttavia, il mio imbarazzo davanti a questo andamento e la mia incredulità si sono trasformate in sdegno quando, nel febbraio scorso, sento qualcuno, che con le “alte sfere” c’ha a che fare, dire che uno dei più rinomati e ascoltati consiglieri giuridici del nostro Ministero degli Esteri aveva suggerito una strada, strada che poi il nostro governo aveva fatto sua [badate: la responsabilità non ricade sul consigliere giuridico, che ha dato appunto un “consiglio”. Sbagliato a mio avviso, ma pur sempre un consiglio era. La responsabilità sarebbe del governo che l’avrebbe tramutato in decisione politica!]: fare un accordo – databile a circa due anni fa – i cui termini sarebbero questi:

  1. Diamo per presupposto che sia l’India ad esercitare la giurisdizione del caso;

  2. Diamo per presupposto che l’India condanni i nostri Marò;

  3. La sentenza di condanna non sarà eseguita in India perché si effettuerà uno scambio di prigionieri: i due marò in cambio di 150 indiani.

Ora, la fonte la ritengo piuttosto attendibile per una serie di motivi altrimenti non l’avrei nemmeno presa in considerazione, non avrei sprecato energie ad incendiarmi di rabbia e – da ultimo – non mi sarei permessa di scriverci su un post. Sebbene, da subito, 150 indiani "interessanti" nelle carceri italiane faccio fatica a immaginarli, ho pensato che la richiesta potesse avere due motivazioni:

  1. tra quei 150 c’è qualcuno di particolare interesse per l’India, per cui l’elevato numero serve solo a creare confusione e sviare sui veri motivi; oppure

  2. trattasi di atto di tracotanza del governo indiano che pensa di dire al popolo “guardate quanti connazionali ho riportato a casa!”


Tuttavia, di tutto ciò, a turbarmi sono i primi due punti, perché sono estremamente e moralmente gravi, oltreché – nell’ipotesi in cui abbiano assunto la forma di un atto vincolante e non di mero “intrallazzo” tra i negoziatori – compromettente la procedura a livello giuridico.

Moralmente è indegno perché tali punti esprimono l’aver rinunciato a lottare, a priori, per la giusta applicazione delle regole a difesa di persone che si trovavano sull’Enrica Lexie alle dipendenze del nostro Ministero della Difesa (ergo Stato italiano) ma soprattutto che si sia accettato, a priori, come plausibile la possibilità di una loro condanna.

Giuridicamente, a preoccuparmi, è il primo punto perché a decidere se un individuo è colpevole o meno non è l’“opinione” dello Stato di appartenenza: quindi, la disponibilità ad accettarne la colpevolezza da parte del governo italiano (secondo punto dell’accordo) non implica la loro condanna automatica.

Ma, mentre la colpevolezza di una persona non è prerogativa statale, l’esercizio della giurisdizione sì. Se davvero l’Italia ha stretto quell’accordo, esso costituisce un’implicita rinuncia all’esercizio della giurisdizione sul caso dei marò che di diritto, invece, spetterebbe all’Italia.

E purtroppo nel diritto, ancor di più nel diritto internazionale, i c.d. “fatti concludenti” sono schiaccianti.


Punto c. Nella stessa occasione in cui venni a sapere dell’accordo di cui sopra, ho avuto modo di ascoltare – con le mie orecchie – uno dei componenti del collegio difensivo dei nostri due marò davanti alla Corte Permanente di Arbitrato.


Ora, vi devo una precisazione per farvi meglio comprendere quello che dirò a breve: come funziona l’arbitrato? Cos’ha di diverso da un tribunale?

La principale mastodontica differenza sostanziale è che nel Tribunale i giudici sono vincolati a decidere sulla base dello stretto diritto (sia esso scritto o consuetudinario, ma deve essere senza dubbio alcuno diritto formatosi tra gli Stati!). Nell’arbitrato, invece, i giudici possono – se vogliono – distaccarsi dalla lettera della norma e decidere secondo equità (ex aequo et bono).

L’altra particolarità è perlopiù procedurale: un tribunale è un organismo fisso e precostituito, quindi antecedente al fatto; un collegio arbitrale invece si costituisce appositamente per una controversia, quindi cambia di volta in volta. Allora perché la Corte si chiama Permanente? Perché è un’organizzazione nata con un trattato nel lontano 1899, quando non esisteva alcun tribunale fisso a livello internazionale e gli Stati erano alla ricerca di una qualche “sicurezza/punto fisso” nel marasma delle regole internazionali che si stavano formando. Così decisero di costituire una struttura fissa dove un segretariato avrebbe tenuto una bella lista di esperti, e - ogni volta che una controversia si attivava – i nomi dei componenti del collegio arbitrale sarebbero stati pescati all’interno di questa lista.

Ed è tuttora così.


Ora, il componente della difesa italiana di cui parlo è stata scelta – sembrerebbe – proprio perché al contempo è nella lista degli esperti depositata presso la Corte, quindi, teoricamente, di come funziona l’arbitrato all’Aja dovrebbe saperne.

Tuttavia, dalle cose che le mie povere orecchie hanno udito, non so se dubitare della sua competenza o della sua buona fede (legata, ovviamente, a direttive di comportamento governative, eh!). E non so quale delle due cose sia la peggiore.


Ciò che ha suscitato il mio sdegno da giurista son state due affermazioni.

La prima: “il tutto è complicato dal fatto che siano militari. Fossero stati individui privati, li si lasciava processare all’India e tutto questo scalpore non si sarebbe prodotto.

La seconda: “La situazione è grave perché non esistono precedenti cui appellarci”.


E ora spiego i motivi del mio sdegno.

Quanto alla prima affermazione: stiamo scherzando??? Come vi ho dimostrato in un precedente articolo, citando disposizione per disposizione, la Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS) assegna la giurisdizione all’Italia ma non fa alcuna distinzione tra fatti di tipo penale commessi da privati e fatti della stessa natura commessi da organi dello Stato (quali sono i militari). L’immunità funzionale di cui i nostri marò devono godere (salvo prova contraria) è una tutela ulteriore nonché un rafforzativo della sussistenza della giurisdizione italiana sulla vicenda; ma anche qualora questa immunità non sussistesse, la giurisdizione spetterebbe comunque all’Italia. C’è scritto, è lampante: la Convenzione più chiara di così non potrebbe essere!


La seconda affermazione è ancora più grave perché, in primis, un bravo difensore un precedente, se non esiste, lo crea con il caso che sta trattando (voglio dire: quante cause non avevano precedenti ma, nel momento in cui sono state affrontate, hanno poi costituito il precedente per le cause future? Non è che possiamo avere sempre un precedente per tutto… quando un caso si presenta per la prima volta, gli avvocati delle due parti che fanno? Lottano con le unghie e con i denti per affermare le proprie ragioni, facendosi appunto forti del fatto che, come non hanno loro un precedente a proprio favore, neppure il loro avversario ce l’ha). Al contempo, il non avere un precedente può essere un vantaggio perché costituisce a tutte due la parti di partire dallo stesso punto di partenza. Per cui, quando un difensore si “nasconde” dietro la non sussistenza di un precedente, io ci leggo molta incapacità o non volontà.


Ciò vale ancor di più se, come ho più volte ribadito, le regole internazionali scritte, e sottoscritte da entrambi i Paesi in causa, sono chiare e pressoché incontrovertibili: semmai deve essere l’India a smontare, con bravissimi difensori, la posizione di forza italiana.

Siamo più o meno in una situazione descrivibile con questa metafora: A ha stipulato un contratto di locazione con B. Nel contratto c’è scritto che in caso di ristrutturazione necessaria dell’immobile, le spese dovranno essere pagate da A (il proprietario) e non da B (l’inquilino). Ma A si rifiuta di farlo e i due vanno in giudizio.

Ora, se la disposizione è scritta nel contratto ma A si rifiuta di rispettarla, B (Italia) parte dalla posizione di forza, che dovrà far valere, e sarà A (India) a dover dimostrare che quella disposizione non vale (per esempio perché il lavoro che ha proposto non è considerabile ristrutturazione necessaria, o qualche altra motivazione).


Ora, mi spiegate perché l’Italia si comporta come se questa posizione di forza non ce l’avesse? Io trasecolo davanti a tutto questo. E la cosa è deleteria in virtù di quello che vi ho raccontato su: il collegio arbitrale non è tenuto a decidere secondo diritto. Vale a dire che può farlo ma può anche non farlo, e in quest'ultimo caso nessuno gli potrebbe contestare nulla.Ne consegue che, se le argomentazioni indiane fossero più convincenti di quelle italiane, anche se la legge scritta va in un senso, il tribunale potrebbe andare nell’altro.

Anche e soprattutto perché nelle procedure contano le argomentazioni presentate in giudizio: nel senso che se, per esempio, io difensore non cito l’art. 97 della Convenzione sul Diritto del Mare non è detto che gli arbitri lo prenderanno in considerazione. È vero che vige, in generale, il principio “iura novit Curia”, cioè la Corte conosce il diritto. Tuttavia è vero anche che, se i giudici dovessero aver sempre presente tutto il diritto conoscibile, il ruolo degli avvocati non avrebbe nessunissimo senso. Quindi il lavoro dei difensori è fondamentale.


A questo punto, che ho fatto? Sono andata a leggermi quanto presentato dal nostro collegio difensivo in vista dell’udienza del 30-31 marzo u.s.

Gli arbitri che giudicheranno la questione sono cinque:

  1. Vladimir Golitsyn (Presidente);

  2. Jin-Hyun Paik;

  3. Patrick Robinson;

  4. Professor Francesco Francioni (ad hoc per l’Italia);

  5. Patibandla Chandrasekhara Rao (ad hoc per l’India).


Secondo l’art.9 delle regole di procedura che il collegio si è dato, queste sono le tempistiche:

  • Entro il 16 settembre 2016 l’Italia dovrà presentare:

  1. Una dichiarazione sui fatti contestati;

  2. I riferimenti giuridici su cui basa le contestazioni;

  3. Quale decisione e quali rimedi (nel senso di sanzioni e misure applicative) l’Italia chiede al collegio giudicante.

  • Entro il 31 marzo 2017, l’India dovrà presentare una contromemoria con:

  1. ammissione o diniego di quanto contestato dall’Italia;

  2. osservazione sui riferimenti giuridici presentati dall’Italia e sottoposizione dei riferimenti giuridici cui invece l’India si aggancia;

  3. qualunque obiezione circa la sussistenza della giurisdizione del tribunale arbitrale e/o ammissibilità della questione davanti ad esso;

  4. la decisione e i rimedi che l’India chiede al collegio giudicante

  • Entro il 28 luglio 2017 l’Italia dovrà presentare una risposta alla contromemoria indiana.

  • Entro il 1° dicembre 2017, l’India dovrà controbattere a quanto detto dall’Italia. Se in questa risposta, l’India continua ad affermare l’insussistenza della giurisdizione e/o l’inammissibilità della causa, l’Italia potrà controbattere – per un’ultima volta – entro il 2 febbraio 2018.

  • Infine, entro 6 mesi da quest’ultima data (quindi entro il 2 agosto 2018), il tribunale arbitrale dovrà emettere il proprio lodo (il nome “ufficiale” delle decisioni dei collegi arbitrali).

Come avete potuto capire, quindi, si tratta di un botta e risposta scritto che si sviluppa nell’arco di circa due anni dal momento esatto dell’instaurazione della causa (26 giugno 2015). Se ci pensate, rispetto ai termini dei nostri processi interni, non è un tempo lunghissimo: tuttavia, arriviamo tutti da tre anni di rimpiattino tra governo italiano e governo indiano, e arriviamo molto stanchi, quindi ci sembra di dover aspettare ancora una vita prima che una qualche forma di giustizia sia fatta.


Quello del 30-31 marzo non era un termine inserito nel calendario che vi ho fatto su, perché – effettivamente – esime dalla decisione sul fatto e si tratta dell’adozione di eventuali misure provvisorie: l’udienza è stata convocata appositamente.


Mi sono andata a leggere la richiesta presentata dall’Italia, in cui si chiede il rimpatrio di Girone e se ne elencano le motivazioni:

  1. La giurisdizione non è dell’India, quindi trattenerlo lì è un esercizio improprio di giurisdizione;

  2. Lesione dei diritti umani del nostro fuciliere di marina, in particolar modo del diritto al giusto processo.

Ora, inutile dire quanto io sia d’accordo su queste ragioni: le urlo da anni.

Il punto dolente però è che il diritto (citando la frase di un film) “po’ esse fero e po’ esse piuma”, a seconda del modo e del contesto in cui lo utilizzi.

Se volete “divertirvi” a leggere la memoria italiana (a questo link) come ho fatto io, troverete che tutti i precedenti cui la nostra difesa si rifà (M/V “SAIGA, Saint Vincent and the Grenadines v. Guinea; M/V “Louisa”, Saint Vincent and the Grenadines v. Kingdom of Spain; “Arctic Sunrise”, Kingdom of the Netherlands v. Russian Federation) sono decisioni dell’ITLOS, quindi del TRIBUNALE. Non del COLLEGIO ARBITRALE.


Perché ve lo sottolineo? Per quello che vi ho detto su: l’arbitrato funziona sul principio dell’equità! Quindi potendo esso “esulare” dal diritto, è necessario al contempo che, per mantenere l’imparzialità, faccia una riflessione “politica” di equidistanza.

Mi spiego meglio: un tribunale, nel prendere le sue decisioni, è vincolato al diritto. Ciò astrattamente garantisce l’oggettività del suo giudizio. Se decide una cosa, potrà sempre dire “è l’articolo X a stabilire questa cosa!”.

Un collegio arbitrale, invece, nel caso in cui decida di discostarsi dal diritto, come fa a dimostrare che il suo giudizio è obiettivo e non una mera posizione di partigianeria nei confronti di una parte piuttosto che dell’altra? Per tenere intatta la propria credibilità e imparzialità dovrà mantenere una certa equidistanza: ora, io spero di sbagliarmi, ma se fossi nel collegio arbitrale io stessa – pur convinta delle ragioni dell’Italia – proporrei di mantenere la cosa così com’è, in maniera salomonica (un figlio all’Italia e un figlio all’India), perché decidere per il rientro di Girone sarebbe uno sbilanciarmi su come deciderò alla fine la causa. Ne andrebbe della mia terzietà e imparzialità davanti a tutti. E in certe situazioni la forma è sostanza.


A maggior ragione se, la stessa proposta - avanzata alcuni mesi prima davanti al Tribunale (ITLOS) che, invece, questa accortezza su equidistanza e imparzialità non la deve tenere – è stata dal Tribunale stesso rifiutata.

Dei casi succitati e presi ad esempio dalla memoria difensiva italiana, l’unico poi passato a un collegio arbitrale come quello italiano è l’Artict Sunrise (ricorderete tutti la nave di ambientalisti che cercarono di bloccare attività di perforazioni avviate dal governo russo nell’artico).La nostra difesa cita un passo che dice “in determining the claims by the Netherlands in relation to the interpretation and application of the Convention, the Tribunal may, therefore, pursuant to Article 293, have regard to the extent necessary to rules of customary international law, including international human rights standards, not incompatible with the Convention, in order to assist in the interpretation and application of the Convention’s provisions that authorise the arrest or detention of a vessel and persons.”

L’affermazione in sé dice tutto e niente e suppongo che anche il “nostro” collegio arbitrale potrebbe ripetere un’affermazione del genere, sostanzialmente incontrovertibile.


Ammesso, e non concesso, che il collegio arbitrale del caso “Artict Sunrise” l’abbia detto esattamente nell’accezione che intende la nostra difesa, e cioè che il collegio può tranquillamente – anzi, sostanzialmente deve – pronunciarsi su aspetti della controversia che riguardano il rispetto dei diritti umani, la nostra difesa dimentica che – sempre in questa interpretazione che ne stiamo dando – il collegio si stava “sbilanciando” in una causa in cui una delle parti presentava netta ostilità e assolutamente disconosceva l’autorità del collegio. Se infatti andate sulla pagina relativa al caso, troverete che sin dall’istituzione del tribunale arbitrale (nel 2013) la Russia non ha mai e poi mai nominato un agente che la rappresentasse in giudizio e ha notificato il suo netto “rifiuto a prendere parte a questo arbitrato”. Per cui, la necessità di dimostrare la più grande indiscussa imparzialità si riduceva rispetto a quella che invece c’è e deve esserci nel caso dei nostri Marò.


Quindi, a mio modestissimo avviso, l’unica possibilità per riavere Girone dalle nostre parti prossimamente è chiedere l’affidamento a una parte terza, neutrale e imparziale, quale potrebbe essere la Croce Rossa. Incaponirsi a chiedere il rimpatrio lo considero un errore.

Spero davvero che la mia previsione – di rifiuto di rimpatrio - venga smentita dalla decisione del collegio attesa a breve, ma dubito seriamente che il collegio si assumerà la responsabilità di concedere qualcosa che il Tribunale del Mare stesso non molti mesi fa ha negato.


L’impressione che ho della difesa italiana è che abbia più a cuore inondare il tribunale arbitrale di carte, riempite di roba, facendone un minestrone, per dimostrare agli esterni (opinione pubblica in primis) che si sta dando da fare, senza in realtà fare quelle due tre scelte efficaci necessarie (ho letto le argomentazioni sull’affermazione della giurisdizione italiana, e praticamente la metà degli argomenti a nostro favore non viene neppure citata, scrivendo invece parafrasi su parafrasi su questioni, a mio avviso, meno importanti. Ovviamente va anche considerata la possibilità che sia io a non essere abbastanza ferrata sul diritto del mare e quindi a non riuscire a seguire il filo difensivo dell’Italia. Boh!).

Personalmente, da quelle pagine, ho intuito una difesa blanda e rassegnata: carte da cui non veniva fuori alcuna “forza”.

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