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L’Arabia Saudita: la madre di tutti i Jihad – Parte Prima


Il titolo è forte, lo so. Ed è anche lapidario. Esso tuttavia costituisce la conclusione che ho tratto mettendo insieme tanti pezzi tra le cose che ho studiato. Il puzzle ormai è quasi del tutto completo.

La mia ricerca, qualche anno fa, è partita domandandomi: perché l’Indonesia, che ha oltre 200 milioni di musulmani, non ci fa così paura mentre sembra che l’Arabia Saudita (con poco più di 30 milioni di abitanti) o il Nord Africa o il Medio Oriente siano l’Orco cattivo da cui fuggire? Questo timore è dettato solo dalla lontananza geografica della prima (l’Indonesia) e dalla vicinanza delle seconde, o c’è qualcosa di più?


L’articolo è lungo, ma a mio avviso nessun aspetto di quelli che racconterò poteva essere tralasciato perché il quadro potesse considerarsi non superficiale. L’ho diviso in paragrafi, l’ho arricchito di immagini, per aiutare la lettura. Ma soprattutto è diviso in parti, con un inizio e una fine logica, che potete tranquillamente leggere uno per volta e in momenti separati. Ma vi suggerisco di seguire, nella lettura, l’ordine che ho seguito io nella scrittura senza saltare direttamente al paragrafo che parla del 1979: l’anno di rottura e, come l’ho chiamato io, il punto di non ritorno. E non per la Rivoluzione iraniana, come si potrebbe pensare a primo acchito. Tutto quello che scrivo prima è necessario per capire il 1979, e di sicuro aiuterà a capire molto su cos’è l’Arabia Saudita.

D’altronde, mi sono accorta che nell’immaginario collettivo sembra che Siria e Iraq siano a noi così vicini, mentre l’Arabia Saudita sia così lontana, lontanissima. Così ho fatto uno screenshot da google maps per farvi/ci realizzare quanto invece l’Arabia Saudita sia vicina ai termini del conflitto siriano e all’IS. Guardate qui dove sta l’Arabia e dove stanno Siria e Iraq. Quello che ho evidenziato in rosso è la provincia dell’Anbar, di cui parleremo alla fine dell’articolo. Per adesso limitatevi ad osservare la mappa geografica.



Si parte!

L’Arabia Saudita è uno Stato relativamente giovane, proclamato “solo” nel 1932. Esso nasce sostanzialmente da un disegno militare promosso e portato a termine dai discendenti di Saud, dinastia da cui prende il nome il Paese. Ma proprio perché frutto di conquista e annessione (non anche assimilazione) di territori governati da tribù differenti e tendenzialmente rivali, l’Arabia Saudita non può dirsi uno Stato “solido”. Esso, invece, si regge in piedi su equilibri piuttosto delicati, per certi aspetti fragili.

Senza le ricchezze petrolifere (individuate alla fine degli anni ’30 dalla Socal americana nell’Arabia orientale, nella regione di al-Hasa: memorizzate bene quest’area, nella cartina giù), il dominio dei Saud sarebbe velocemente passato dall’estensione che tutt’oggi conosciamo come Arabia Saudita a quella che era la loro terra delle origini, il Najd.

Infatti l’operazione di conquista del regno, costruito in trent’anni, parte da lì: al-Dirʿiyya nell’oasi di Riyad, proprio al centro della penisola arabica dove da secoli permaneva il vuoto di potere.




Dal Najd con furore

Il clan degli al Saud si differenzia rispetto alle altre tribù, solo per via del fatto che l’emiro di allora, Muḥammad ibn Saud, nel 1774 strinse un patto politico-religioso con il predicatore Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb, fondatore di una setta talmente conservatrice da risultare invisa alla maggior parte delle comunità del Najd. Questo patto costituisce un potenziale fattore di coesione che farà la differenza.

Al-Wahhāb e i suoi seguaci propugnano (come vi racconterò nella Seconda Parte del'articolo) in termini rozzi e aggressivi il ritorno alla purezza austera dell’Islam delle origini cui ricondurre tutte le tribù e le comunità arabe divenute “infedeli”. Le tribù beduine nomadi, portate per natura a incursioni a scopo di razzia o conquista, si sentono legittimate quindi a tale condotta dall’appello al jihad di conversione lanciato da al-Wahhāb al punto da divenirne veri e propri fanatici, avendo al contempo reintrodotto anche l’idea di martirio in nome del jihad (che garantiva a quei martiri un immediato ingresso in paradiso). In questo modo infatti più nessun limite sarà posto alla guerra di conquista contro le tribù sunnite o sciite accusate di eresia e idolatria.

I primi ad essere presi di mira saranno i territori occupati dalle benestanti comunità sciite in Iraq e da quelle sunnite dell’Hijiaz (dove si trovano Medina e La Mecca) e che stanno sotto la blanda protezione ottomana. Così, tra i secoli XVIII e XIX, si verificheranno due ondate di guerra d’espansione, condotta dal clan al-Saud e da quello ash-Sheikh, discendente di al-Wahhab. Entro il 1790 questa alleanza controllava la maggior parte della penisola arabica e faceva continue incursioni a Medina, in Siria e in Iraq. La loro strategia (esattamente come l’IS oggi) era quella di sottomettere le popolazioni che conquistavano per instillare paura negli altri.

Nel 1801, attaccarono la città santa (per gli sciiti, come vedremo giù) di Karbala, in Iraq. Massacrarono migliaia di sciiti, inclusi donne e bambini. Molti santuari sciiti furono distrutti, compreso quello dell’Imam Hussein. Nel 1803, Abdul Aziz entrò nella città santa di La Mecca e successivamente a Medina. I seguaci di Abd al-Wahhab demolirono i monumenti storici e tutte le tombe e i santuari che incontrarono sulla loro strada. Distrussero, praticamente, secoli di architettura islamica vicino alla Grande Moschea.

Tuttavia, nel novembre del 1803, uno sciita uccise il re Abdul Aziz (per vendicarsi del massacro di Karbala). Suo figlio Saud bin Abd al Aziz gli successe e continuò la conquista dell’Arabia. I governanti ottomani, però, non potevano più rimanere a guardare mentre il loro impero veniva rosicchiato pezzo dopo pezzo. Così nel 1812, l’esercito ottomano, composto da egiziani, li cacciò da Medina, Gedda e Mecca. Nel 1814, Saud morì di febbre e gli succedette il figlio Abdullah, il quale però fu catturato dagli ottomani e condotto a Istanbul, dove fu giustiziato in maniera raccapricciante (un visitatore narrò di averlo visto essere umiliato nelle strade di Istanbul per tre giorni, poi impiccato e decapitato, la sua testa sparata da un cannone e il suo cuore strappatogli dal petto e impalato sul corpo). Nel 1815 nella battaglia decisiva il pascià d’Egitto (per conto degli ottomani) distrusse le forze wahhabite.

Nel 1818 la confederazione degli Šammar, alleati della Sublime Porta, rase al suolo la capitale wahhabita, al-Dirʿiyya. Per cui il primo Stato saudita ebbe fine e il Najd fu annesso all’emirato degli al-Rashīd, tribù leader degli Šammar. I pochi wahhabiti superstiti si ritirarono nel deserto e lì rimasero, quiescenti, per la maggior parte del XIX secolo.


In questo modo il potere temporale degli al- Saʻūd viene, momentaneamente, azzerato. Le idee di al-Wahhab invece continueranno ad attecchire, soprattutto nelle tribù beduine nomadi. Così, ai primi del ‘900, in concomitanza con la disgregazione dell’impero ottomano, il fervore wahhabita si riaccende all’interno di un quadro “istituzionale” che viene concepito dai leader e dagli `ulamā di alcune tra le più importanti tribù beduine della penisola (gli Otaibah, i 'Mutayr e gli 'Ajman): la riunificazione della penisola arabica sotto la dominazione beduina.

Per prima cosa guardano al Kuwait, dove è rifugiato l’erede dei Saud,ʿAbd al-ʿAzīz (vedi foto sotto) cui daranno supporto militare sotto i vessilli del “vero islam” a condizione che lo Stato islamico che verrà creato adotti formalmente e concretamente la dottrina di al-Wahhab. Cogliendo al volo l’occasione, Abd al-ʿAzīz riconquisterà il Najd di cui si autonominerà - sotto il nome di ibn Saud - emiro nel 1902, ponendo la capitale a Riyad.



Già nel 1906, intorno alla fascia di oasi del Najd riconquistate agli Al-Rashid, saranno state create delle comunità i cui giovani, appartenenti ovviamente a tribù beduine nomadi, saranno indottrinati e addestrati formando milizie guerriere organizzate, unite sotto il nome di Ikhwān (Fratelli). Questi daranno vita a una comunità combattente tanto determinata quanto chiusa al punto di coprirsi il volto in presenza di estranei, anche se musulmani.

Nel 1913 essi porteranno a compimento l’incursione alla guarnigione di Hufuf, ultimo presidio ottomano sulla costa orientale del Golfo Persico, conquistano quindi la fertile regione di Al-Hasa (summenzionata per i giacimenti petroliferi) che era abitata da una comunità sciita autoctona che da allora sarà emarginata perché “politeista”, e quindi infedele.


Quando gli archeologi erano agenti segreti al servizio di Sua Maestà

È necessario non perdere assolutamente di vista il periodo storico. L’impero britannico è ancora l’impero per antonomasia e Inghilterra e Francia puntano il più possibile alla disgregazione dell’impero ottomano per acquisirne porzioni di territorio (vedi ad es. le mire sull’Egitto). Non sorprenderà quindi che anche nel disegno di unificazione della penisola arabica ci sia lo zampino degli agenti di Sua Maestà. Nello specifico, quelli di stanza in Kuwait, dove dal 1909 opererà il contatto apparentemente occasionale del capitano William Shakespear, fotografo, geografo e spia, che ispirerà l’attacco di Hufuf del 1913. Ibn Saud sarà spinto a combattere gli Šammar, alleati degli ottomani, maturando però la sconfitta di Jarrab (gennaio 1915) dove il capitano Shakespear troverà la morte. Ciò comporta:

  1. la firma del Trattato di Darin (dicembre 1915) in cui ibn Saud si impegna a non attaccare gli alleati britannici e i protettorati del Kuwait, del Qatar e dei Trucial States, facendo invece guerra ai Sammar, del clan dei Rashid. In cambio, viene riconosciuto come sultano del Najd, di al-Hasa, al-Qaṭīf e al-Jubayl e viene finanziato dalla Corona, con un anticipo di 10.000 sterline d’oro e un primo stock di armi leggere, cui seguiranno 5.000 sterline mensili e armamenti a seconda delle necessità.

  2. Gli inglesi sposteranno il loro appoggio effettivo sugli hashemiti, rappresentati autorevolmente da al-Husayn ibn ‘Alī, Sceriffo di Mecca, che poteva effettivamente attuare la riscossa araba nel Levante (vedi Siria, Libano, Palestina, ecc.). Per fare ciò, Sua Maestà britannica inviò il tenente colonnello E.T. Lawrence (noto ai più come Lawrence d’Arabia). Ciò significava anche che ibn Saud non avrebbe potuto muovere guerra all’Hijaz (dove sta La Mecca), non finché questa godeva della protezione britannica.

  3. La “collaborazione” tra gli inglesi e Saud porterà quest’ultimo a inimicarsi gli Ikhwān, sebbene questi per altri dieci anni saranno i protagonisti delle sue vittorie militari. Questo logoramento dei rapporti sarà dovuto principalmente al punto b): gli Ikhwan sono impregnati di wahhabismo perciò il loro obiettivo principale è l’Hijaz degli hascemiti e i deserti giordano e iracheno (dove invece gli inglesi vogliono mettere mano), attraverso cui consolidare le conquiste sulle comunità musulmane “non credenti” e ricongiungersi con le tribù emigrate in passato dalla Penisola Arabica, con cui hanno mantenuto rapporti di amicizia.


Sappiamo che le promesse che Lawrence fece agli hashemiti furono vanificate dall’accordo segreto Sykes – Picot, in base al quale Siria e Libano divenivano mandato francese (ai sensi del Patto della Società delle Nazioni) e Palestina, Transgiordania (attuale Giordania) e Iraq andavano sotto mandato britannico. A parziale risarcimento verso gli hashemiti che non avevano ottenuto la tanto desiderata riunificazione araba, i figli dello sceicco di La Mecca diverranno (grazie anche al sostegno di E.T. Lawrence e dell’altra archeologa/agente segreto Gertrude Bell - insieme nella foto) uno il primo re dell’Iraq (Faysal) e l’altro emiro della Transgiordania e, successivamente, primo re di Giordania (ʿAbd Allāh).



Con il Protocollo di al-'Uqair (dicembre 1922) gli inglesi fisseranno frontiere formali tra Iraq e Najd e tra Kuwait e Najd, per spingere ibn Saud a trattenere le incursioni beduine (in questa occasione al Najd verrà annessa una bella fetta del territorio del Kuwait).

Nel 1924-25 gli inglesi non faranno alcuna opposizione alla conquista dell’Hijaz da parte del clan dei Saud, dal momento che l’alleanza con lo sceriffo di Mecca (nel frattempo autoproclamatosi Califfo) non aveva più ragion d’essere, vista la conclusione della I Guerra mondiale. Fu questa però la goccia che fece traboccare il vaso: gli Ikhwan volevano essere posti a capo dei governatorati di Mecca e Medina, mentre Ibn Saud li affidò a membri della sua famiglia.

Così nel 1927 esplose la ribellione degli Ikwan, guidata dai capi delle tribù Otaibah e 'Mutayr: per oltre due anni Ibn Saud verrà accusato di infedeltà e di collusione con i cristiani, la sua monarchia sarà dichiarata inammissibile ai sensi del Corano portando anche alla delegittimazione di quegli ulamā che cercano di giustificarla. Dal momento che le incursioni degli Ikhwan violeranno ripetutamente le frontiere tra Najd, Kuwait e Iraq, la RAF sarà costretta a intervenire e Ibn Saud li affronterà nella battaglia di Sebillah (1929), in prossimità di al-Artawiah, la prima storica comunità di insediamento delle milizie beduine.

Grazie al supporto britannico, le milizie ribelli saranno falcidiate. La conquista del Sud, a partire dal retroterra dell’Hijaz, si completerà con l’Asir, annesso nel 1932. Lo stesso anno verrà proclamato il regno dell’Arabia Saudita. Nel 1934, dopo una breve guerra con lo Yemen, la regione di Najrān, cui viene garantita autonomia di culto sciita, accetta di essere annessa allo Stato saudita.

Pensando che i rami ribelli fossero estirpati, le milizie tribali beduine considerate leali furono raccolte in unità paramilitari regolari, successivamente professionalizzate da istruttori inglesi, prendendo il nome di White Army, ora Guardia nazionale (che rimarrà sempre un’influente forza di militanza religiosa. Non a caso è quella che l’Arabia sta mantenendo al confine con lo Yemen).


I Sudairi

Abdulaziz ibn Saud, figlio di una Sudairi (uno dei clan più importanti del Najd), presterà sempre molta attenzione alla pratica dei matrimoni intertribali, sia con tribù alleate (tra cui quella degli ash-Sheikh, discendenti di al Wahhab) che con quelle contro cui aveva combattuto.

Abdulaziz, rimasto al potere fino al 1953, ebbe un centinaio di figli dalle diverse mogli, di cui 48 maschi. Non sorprenderà quindi che quello che era stato designato al trono, per succedere all’attuale re Salman, fosse il più giovane dei figli di Saud, il principe Muqrin che vanta la tenera età di 69 anni.

Tuttavia, tra i tanti figli avuti, egli privilegiava quelli avuti dalla moglie Hassa Al-Sudairi, appartenente allo stesso clan della madre di lui. Da lei ebbe sette figli maschi, i “Sudairi Seven”. Nell’immagine che vi posto, presa dal New York Times, vi ho evidenziato con il rettangolo blu quattro dei sette Sudairi (n.b. ovviamente su 48 figli maschi, il NYT ha incluso solo quelli più influenti), e segnato con la X rossa quelli che sono divenuti re (Salman è appunto uno dei Sudairi).




I tre Sudairi mancanti da questo riassunto genealogico sono:

  1. Turki (II) bin Abdulaziz Al Saud, che è stato estromesso dal trono quando negli anni ’70 decise di sposare Hind Al Fassi, figlia di Sheikh Shams ed-din Al Fassi leader di un movimento sufi (il sufismo è il ramo “ascetico”, poetico e letterario dell’Islam. Vi accennerò qualcosa nella Seconda Parte) all’interno del regno. Matrimonio ovviamente osteggiato da una casa regnante che aveva adottato il wahhabismo come religione di Stato;

  2. Abdul-Rahman bin Abdulaziz Al Saud, che è stato estromesso per essersi opposto, nel 2007 alla formazione del Consiglio ereditario, dal momento che il patto prevedeva che la successione non sarebbe più avvenuta “per anzianità” bensì “per merito”. Sostanzialmente si oppose perché subito dopo l’allora erede designato, Sultan, sarebbe toccato a lui; vedeva sfumare l’occasione del trono apparentemente ormai così vicino;

  3. Ahmed bin Abdulaziz Al Saud (il più giovane dei Sette Sudairi e, si stima, trentunesimo dei figli di Abdulaziz). Nonostante fosse tra i più amati assieme a Salman, nel 2012 (ufficialmente su sua richiesta) si ritirò dalla successione, lasciando spazio a ben Nayef (junior).


Nello schema vi ho cerchiato in verde anche quelli che sono i due contendenti per proseguire la dinastia, quelle che potremmo definire le “nuove promesse”, la “meglio gioventù”:

  1. Miteb, figlio del precedente re Abdullah (Abdullah non era un Sudairi, bensì figlio di una donna appartenente a una delle tribù dei Sammar, che come vi ho raccontato su era rivale dell’unificazione araba sotto gli al Saud);

  2. Mohammed bin Nayef, secondogenito di uno dei Sudairi, Nayef bin Abdulaziz, che ad aprile 2015 è stato nominato principe ereditario al posto di Muqrin (si dice su richiesta di quest’ultimo).

Nonostante gli altri due Sudairi, Sultan e Nayef non siano diventati re, hanno comunque sempre ricoperto ruoli importanti, e in genere ai Sudairi è sempre stata riservata la direzione dei Ministeri dell’Interno e della Difesa, e per alcuni periodi anche l’intelligence.

Per intenderci, Nayef è stato Ministro dell’Interno dal 1975 fino al 2012 (anno della morte), quindi anche quando a capo del regno non c’era un Sudairi bensì re Kalhed o re Abdullah che appunto Sudairi non erano. Mentre Sultan è stato Ministro della Difesa dal 1963 fino al 2011 (anno della morte), anch’egli quindi a capo di un Ministero fondamentale quando a essere re non era un Sudairi.


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